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transizione ecologica

Riparare non basta. Cosa serve a Figliuolo per una svolta. Anche verde

Giulio Boccaletti

Immaginare un'economia sostenibile per affrontare le sfide del mondo in trasformazione. Un percorso cruciale che l'Europa cerca di incentivare e che richiede unità politica e archetipi autoctoni per plasmare il futuro italiano

C’è un filo rosso che lega la nomina del commissario per l’alluvione in Romagna alle polemiche sulla nuova legge europea per il ripristino della natura. Partiamo dall’Europa. Da vari anni, la Commissione e il Parlamento europei stanno cercando di definire il futuro economico del continente. La legge sulla natura è solo l’ultimo in una sequenza di interventi, dei quali il più significativo è il Green Deal: attraverso i fondi di NextGenEU, ha messo a disposizione enormi risorse per incentivare la transizione ad un’economia a basse emissioni (è da quelle risorse che si finanzia il PNRR in Italia.).  I finanziamenti europei non sono un regalo. Accompagnano regole e aspettative che servono per spingere le economie degli stati membri a raggiungere un futuro molto specifico. Nelle polemiche spesso ci si focalizza sul costo che questo pacchetto di interventi impone all’economia, o sulle ideologie che motiva il sostegno o l’opposizione a questa transizione – evitare un destino catastrofico, come dicono alcuni, o imporre particolari valori a tutti, come lamentano altri.  In realtà, queste polemiche sono una distrazione. La transizione è un treno in corsa da diversi anni. La Cina si è dichiarata “civiltà ecologica” nel 2012, non per fuoco sacro ambientalista ma perché, come paese povero di petrolio e con una vocazione manifatturiera guidata da interessi geopolitici pressocché globali, ha capito che essere leader nelle tecnologie rinnovabili porta immensi vantaggi, indipendentemente dal fatto che nel breve tempo continui ad avvalersi di carbone per la generazione elettrica.  Dopo anni di pigrizia e inattività su questi temi, gli Stati Uniti si sono scoperti intenti a disaccoppiare la loro economia da quella Cinese, e sono giunti a simili conclusioni: l’amministrazione Biden ha portato a casa l’Inflation Reduction Act, rilasciando una quantità di risorse federali senza precedenti per la decarbonizzazione dell’industria e del trasporto del paese e per la messa in sicurezza del territorio dai cambiamenti climatici. Questo contesto è importante. Siamo di fronte ad un periodo senza precedenti, nel quale i governi più potenti del mondo hanno deciso di finanziare le più aggressive politiche industriali della storia. Sta già succedendo. Resistere come se la transizione fosse solo un vezzo ideologico sarebbe come insistere di voler muoversi con il calesse quando tutti intorno hanno comprato l’automobile. Si può essere nostalgici per il passato, arrabbiati per gli inevitabili costi che la transizione impone, ma nessuno di questi sentimenti cambierà i fatti. Il problema è che la retorica in Europa è sempre stata più avanti della pratica. Adesso il continente sta cercando di correre ai ripari, spingendo sull’acceleratore mentre si trova a gestire una guerra sul proprio confine e una crescita rallentata dall’inflazione. Nella fretta, l’imperativo strategico esistenziale, ovvero preparare l’economia del continente per il futuro industriale all’orizzonte, rischia di schiantarsi contro la percezione che le decisioni siano state poco condivise tra stati membri come l’Italia, che le subiscono invece di plasmarle.  Non è un caso che, in un recente discorso pubblicato poi anche su questo giornale, il Presidente Draghi abbia posto l’accento sulla risposta europea al cambiamento climatico. Si tratta di un archetipo di come la mancanza di unità politica impedisca una condotta pienamente strategica. Sul fronte ambientale, come sul fronte monetario, l’Europa soffre di una patologica incompiutezza politica, dalla quale poi discende la resistenza di stati membri.  Questo non vuole dire in Italia non si sia fatto nulla per la sostenibilità. Tutt’altro. Siamo leader europei e, in qualche caso, mondiali di tecnologie e soluzioni che serviranno nell’economia del futuro. Ma dato il campanilismo e la frammentazione tipici della società italiana, non è pensabile trasformarne l’economia senza fornire alla popolazione, alle autorità e alle migliaia di piccole aziende che formano il tessuto sociale del paese, gli strumenti per declinare quella transizione nella loro realtà locale. L’Italia ha bisogno di archetipi autoctoni che dimostrino cosa vuole dire in pratica trasformare il nostro territorio.  Ed è qui che il Generale Figliuolo ha un ruolo fondamentale. La Romagna si trova di fronte ad un bivio. Da una parte, si ha la ricostruzione di ciò che c’era, com’era, per rimettere in carreggiata un’economia che ancora non aveva affrontato appieno le sfide che ci aspettano. Questa strada assume che il futuro della Romagna sia il suo passato, che l’agricoltura non sarà fondamentalmente diversa da quella che avevamo, che la gestione forestale continui com’era, che il valore aggiunto venga dal turismo, e che la vita dei giovani romagnoli sarà indistinguibile da quella dei padri: un’isola di calessi in un mondo di automobili. Ma l’altra strada, al bivio, porta in una direzione diversa. Si tratta di un’opzione che i romagnoli possono esercitare per approfittare del disastro, per quanto inevitabilmente penoso, e correggere il tiro, interrogandosi su quale futuro abbia senso inseguire, e su come riconciliare il territorio e il suo patrimonio naturale con un’economia moderna e produttiva. Questo, in fondo, è il percorso che l’Europa sta goffamente cercando di incoraggiare.  Quando il generale si troverà di fronte gli operatori economici, i rappresentanti politici, e i membri della società civile della Romagna, avrà l’opportunità di facilitare una conversazione importante: se accettassimo di immaginare un futuro diverso per la regione, che cosa vorremmo costruire per renderla pronta ad affrontare le sfide di un mondo che cambia? La resistenza alle pressioni europee è comprensibile, ma rischia di essere una scusa per non rispondere a questa domanda che, prima o poi, si dovrà porre tutto il paese.