il racconto

Milano non si ferma per lutto, e attende i funerali di Berlusconi

Salvatore Merlo

Da Arcore a Cologno, da via Rovani al teatro Manzoni fino alla San Babila del predellino: passeggiata nei luoghi del Cavaliere, in una città in cui piove ma non sono lacrime. Il lutto e la milanesità

Sciarpe del Milan, del Monza, della squadra di Arcore. Striscioni. “Addio Silvio”, “Ciao Presidente”, “Ti vogliamo bene”. Intorno a Villa San Martino, incastonata come un triangolo settecentesco nel cuore della Brianza, si avverte il calore e persino il tifo d’un fenomeno che è (è stato?) di massa. Un matto cerca di entrare, viene fermato dai carabinieri. La signora Noelle è accampata qui da due giorni. Ma la camera ardente di Silvio Berlusconi, deceduto lunedì mattina, è più che riservata. È blindata. La lista degli ingressi la tengono Marina Berlusconi e Marta Fascina. Anche il cronista più sbarazzino e sfacciato, che tenta con un sms di farsi invitare da Fedele Confalonieri, viene giustamente rimbalzato. Grosse auto tedesche, Alfa Romeo, una Maserati (è Gianni Letta), si gettano all’interno del cancello di ferro battuto come ci si tuffa in uno specchio. “Adesso arriva Giorgia Meloni”. “Sì però lei non è come Silvio”. “E Salvini?”. “Buono quello”.

   

   

Ma questa è Arcore, la tana del Lupo. Il Castello attorno al quale si radunano i sudditi, i vassalli, i fedeli. Milano è un’altra cosa. Affaccendata e come distratta, indifferente, apparentemente disinteressata a cogliere il senso di un fatto, di una morte. Milano non è Roma, dove avrebbero sparso coriandoli ovunque, fatto volare aeroplani con striscioni attaccati alla coda, fra trivio e caos, puntarelle, lacrime e friccichi de luna. Come dice Vittorio Feltri, provocatore bonario (e bergamasco): “Guarda che a Milano si lavora, non l’è minga la terronia”. Non ci sono milanesi a Milano, ma la città è il suo stesso genius loci. Alla pasticceria Marchesi in galleria –  meta ambita di un rito, oggi aggiornato dalla Fondazione Prada – si officia la socialità di un’idea, quella che già nell’educazione sentimentale di Giorgio Gaber è bella per i grattacieli, per le réclame, per la gente che lavora e per la gente che produce. Era così anche per Berlusconi: prima fatturare, e poi il resto. E dunque il funerale sarà oggi, questo pomeriggio, e ci sarà il lutto, sì, ma non prima. Prima si lavora. Punto. Come sempre. “Io domani chiudo però, e vado in Duomo”, dice Enrica Ferri, la proprietaria di Royal Britannia Boutique, il negozio delle cravatte eleganti di via San Clemente. Le regimental inglesi.

     
Milano sembra una città solo all’apparenza dotata di libero arbitrio, ma forse in realtà è mossa da forze superiori che la spingono ad agire sempre nel medesimo modo, a perseverare in una sorta di difetto d’umanità. Chissà. Qui si lavora. Gli affari, dunque, un Dio temibile e un destino che sembra iscritto nella carne. Piazza San Babila, il luogo in cui il 18 novembre del 2007 Berlusconi pronunciò il famoso discorso del Predellino, è un via vai di gente che cammina veloce e con la testa bassa fra le automobili e i lavori stradali. E’ un genere di vita tutto impostato sul calcolo delle ore e dei minuti, tanto di conversazione, tanto di occhiate, tanto di stretta di mano più o meno allusiva. Al teatro Manzoni, dove Silvio negli anni Ottanta conobbe Veronica Lario, il teatro che lui poi acquistò “perché volevano farci un supermercato”, c’è uno spettacolo comico di Teresa Mannino. Tutto esaurito. Si va in scena comunque anche se il padrone è morto.

   

Al numero 2 di via Rovani, quartiere Magenta, la villa che è stata l’inizio della scalata berlusconiana al cielo è completamente chiusa. Da un palazzo accanto, la residenza dei Falck (o forse dei Recordati), esce un’anziana signora che fra dita e collo avrà dieci milioni di gingilli addosso. In pratica una cassetta di sicurezza ambulante. Ma lei se lo ricorda qui Berlusconi? “Mai visto”. In città Forza Italia vorrebbe far intestare il nuovo stadio al Cavaliere, ma hanno rinunciato, anche perché lo stadio non si sa nemmeno quando (e se) sarà costruito. Il sindaco Beppe Sala dice che “Milano piange Silvio Berlusconi”. Ma qua non piange proprio nessuno. Non ancora, almeno. Forse c’è tempo.

 

Alla fine, la misura della milanesità dei milanesi è sempre nel sudario di necrologi del Corriere. Il giornale che l’edicolante cinese di Foro Bonaparte, quasi davanti a una delle prime case del Cavaliere (al numero 22), all’inizio non riesce a trovare. L’edicolante osserva il cliente che gli ha chiesto il giornale come fosse un marziano: scartabella perplesso tra i calendari, le bandiere dell’Inter e del Milan, tra le riproduzioni del Duomo e i grembiuli con la pizza... E alla fine, eccolo il Corriere della Sera, eccolo quello strano oggetto: il giornale. Tre pagine fitte fitte di necrologi per Silvio a corpo minuscolo. Ecco anche la milanesità, appunto.

   

Persino a Cologno Monzese, sede dell’impero Mediaset, è una giornata di lavoro come le altre. Se non fosse per quel “Ciao papà”, che appare scritto sulla sommità dell’altissimo ripetitore televisivo visibile già dalla tangenziale est, non si direbbe che il fondatore del gruppo sia appena morto. Ma qui il lutto si manifesta così, un po’ come i necrologi del Corriere.  Minuscolo. I dipendenti di Mediaset entrano ed escono dai cancelli, e non hanno troppa voglia di parlare di Berlusconi. Anche se poi,  inevitabilmente, tra questi uomini e donne talvolta riuniti in nervosa accidia attorno ai cancelli, la sigaretta in bocca o dimenticata tra le dita, finisce per riproporsi la questione del futuro e del che accadrà adesso: Marina e Pier Silvio venderanno la televisione ai francesi di Vivendi? “Certo che ci mancherà il Dottore”, dicono. Ma poi, dopo questo istante di raccoglimento, la conversazione riprende, tranquilla, priva di ogni passione come il borbottio sornione d’un bollitore. Milano appare indifferente, ma sotto l’abito da lavoro dicono non lo sia affatto. E’ la milanesità, spiegano. Un atteggiamento dello spirito, un carattere, un modo di vedere le cose, prima ancora d’essere un dato geografico.  

 

“Vedrete che domani ci saranno centinaia e centinaia di milanesi in Duomo”, dice Paolo Pillitteri, che fu sindaco socialista e amico del Cavaliere. Intanto la sera cala sulla Madonnina, ricomincia a piovere, e non sono lacrime. Le bandiere sulla facciata del comune sono ancora lì, a mezz’asta, e adesso sempre più zuppe mentre comincia il rito allegro dell’aperitivo. Nunc est bibendum, ecco, lo diceva anche Berlusconi quando il Milan vinceva la coppa dei campioni. 

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.