(foto Ansa)

(1961-2023)

Con Andrea Augello scompare il meglio della destra italiana

Salvatore Merlo

Il senatore di Fratelli d'Italia era la destra in carne e ossa. Intelligente, colto: la classe dirigente che manca alla premier Meloni

“In questo paese la sconfitta è scomoda, ma la vittoria è imbarazzante”. E lo diceva ridendo, dal letto o dalla poltrona dalla quale ormai si muoveva con difficoltà. Fratelli d’Italia aveva appena vinto le elezioni, e lui raccontava di ricevere già telefonate e visite grottesche. Imbarazzanti, appunto. Il grande e famosissimo dirigente sportivo, notoriamente di sinistra, che al telefono gli dice, squillante: “Andrea, questa non è solo una vittoria di Giorgia ma dello sport italiano!”. E poi tutti quelli che improvvisamente si presentavano, tirando fuori le foto ingiallite del nonno con il fez o con la divisa del Guf… E lui sorrideva, indulgente. “Io di solito a questi ho sempre raccontato la storia di mio nonno, vicequestore a Siracusa”, diceva con quel suo romanesco bonario. “Mio nonno era antifascista, malgrado fosse stato decorato dal prefetto Mori. Andava a lavorare con il garofanino rosso all’occhiello. Poi però un giorno arrivarono gli inglesi, i liberatori. E c’era un sergente ubriaco che salì in prefettura, ammainò il tricolore, e lo sostituì con la bandiera britannica. Allora mio nonno, antifascista, s’incazzò e gli puntò la calibro nove. Gli fece rimettere il tricolore. Finì internato”. Un apologo, lieve e insieme denso. Era fatto così Andrea Augello. Con lui oggi scompare non soltanto un uomo colto e spiritoso, ma anche l’intelligenza più rapida e più politica della destra italiana.

 

E i dati biografici, il fatto che sia stato assessore regionale, sottosegretario,  senatore, avversario e poi suggeritore di Gianfranco Fini, regista di ogni campagna elettorale e di ogni vittoria della destra romana degli ultimi trent’anni, militante missino, dirigente di An, capo di una corrente sociale della destra italiana, non rendono nemmeno lontanamente l’idea di chi sia stato Andrea Augello.

Figlio di un ufficiale dei Carabinieri, divenuto “fascista” alla metà degli anniSettanta dopo aver visto suo fratello picchiato a scuola dai comunisti, era un sopravvissuto e ormai assestato galantuomo. Non amava la ribalta pubblica, raramente si faceva intervistare, ancora meno andava in televisione, addirittura possedeva soltanto un telefono degli anni Novanta, senza social media e senza Whatsapp, perché coltivava quella fiducia quasi assoluta nelle facoltà della ragione che in lui si accompagnavano al disprezzo della moderna imbecillità digitale. Non era conosciuto dal grande pubblico dei talk-show e delle risse catodiche, anche se quelle poche volte in tv erano a modo loro memorabili. Ancora adesso su internet si può ritrovare una vecchia registrazione di La7, di una decina di anni fa. Ecco un grillino descamisado che urla frasi incomprensibili. E Augello, con lo sguardo carico d’ironica flemma: “Caro ragazzo, non si urla così al mattino, sia gentile. E si metta una cravatta”. Se una subdola e incurabile malattia non lo avesse condannato a morire anzitempo, all’età di sessantadue anni, oggi quest’uomo che riusciva a rendere dolce persino la cadenza romanesca sarebbe al governo, a Palazzo Chigi, a esercitare quel ruolo di regista, di tessitore, nel quale eccelleva perché era capace di combinare temperato cinismo e fantasia, cultura e velocità di pensiero, indulgenza e spiritosa scioltezza. Tutte qualità che spesso mancano alla classe dirigente che circonda Giorgia Meloni. Andrea Augello era infatti senza dubbio il migliore di quella generazione di sopravvissuti agli anni folli delle  spranghe e delle pistolettate. Coltivava il ricordo dei caduti, sapeva bene che tra loro sarebbe potuto esserci anche lui,  ma senza orgogli luciferini: di certe sbracature sorrideva con amarezza. L’invalidante malattia che lo ha colpito circa un anno e mezzo fa è stata una  beffa del destino. Proprio quando il suo mondo, quel mondo, finalmente, anzi incredibilmente, era arrivato al governo del paese, proprio quando una giovane donna post missina giurava nelle mani del presidente della Repubblica (“chi l’avrebbe mai detto”), lui non c’era. Non poteva esserci. La classe dirigente di governo che manca a Fratelli d’Italia è infatti proprio lui, lui che non lo è mai diventato: lui che è stato la destra in carne e ossa e che non c’è più in questa vita. Alcune righe che ritroviamo oggi in un suo libro dedicato alla figura del fratello Tony, che prima di lui e con lui ha fatto la storia della destra romana, assumono adesso il tono solenne di un testamento, quasi l’estremo consiglio a Meloni da parte di un uomo che ragionava sempre in termini di prospettiva politica: “Un leader senza classe dirigente, senza un partito radicato, senza cultura, senza una linea orizzontale di personalità di standing medio alto che lo affianchi, dura il tempo necessario a logorarsi nella macchina della sovraesposizione mediatica: più o meno tre o quattro anni”.

 

Dieci mesi fa, prima di candidarsi in Senato, sapendo di essere condannato a morte, aveva voluto consultare i dottori per sapere quanto gli restava da vivere: “Voglio sapere quanto posso essere utile”. Parlava della morte, della sua morte, come se quasi non lo riguardasse. Con un coraggio, una spavalderia, una forma di snobismo o d’incoscienza, chissà, che lasciava gli interlocutori interdetti, commossi e senza parole. Era così, Augello. E benché fosse un uomo leale alla sua parte politica, era un uomo libero.

Il giorno precedente la ormai famosa direzione nazionale del Pdl, quella nel corso della quale Berlusconi si mandò reciprocamente a quel paese con Gianfranco Fini – “che fai, mi cacci?” – il Cavaliere lo ricevette a Palazzo Grazioli. Era il 2010. “Caro Andrea, ho apprezzato i tuoi sforzi diplomatici per ricucire lo strappo con Fini”, gli diceva Berlusconi. “Ma forse non c’è più nulla da fare. Domani presenteremo un documento. Si stabilisce che una volta discusso e votata la linea politica chi non si adegua è fuori dal Pdl”. E Augello, comprensibilmente imbarazzato: “Io per la verità credo che voterò contro questo documento”. Al che Berlusconi, voltandosi di scatto verso un proprio collaboratore: “Ma perché si può anche votare contro?”. Non era stato finiano quando Fini era l’imperatore di An, ma lo divenne quando Fini  non contava quasi più nulla. Sono i tanti piccoli e grandi gesti della vita che poi, alla fine, definiscono chi siamo.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.