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Le nomine dimostrano che sui fondamentali l'intesa Meloni-Mattarella funziona. Evviva il Mattarelloni

Claudio Cerasa

Atlantismo e trasversalità. La partita sulle grandi partecipate confermano che sui veri fondamentali dell’Italia la premier e il capo dello stato se la intendono alla grande. Il decisionismo, le scelte e la continuità spiegati attraverso tre nomi

Meloni più Mattarella uguale Mattarelloni. Le scelte ambiziose compiute ieri da Giorgia Meloni sulle nomine delle partecipate di stato confermano, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che una delle alleanze che stanno maggiormente a cuore alla presidente del Consiglio è quella costruita negli ultimi mesi con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Sarebbe un errore, di fronte alle nomine, ricercare con la lente di ingrandimento il numero di amministratori delegati graditi al Quirinale, perché il capo dello stato è naturalmente rimasto fuori da una partita che riguarda solo il governo. Ma pure sarebbe un errore, di fronte alle decisioni della presidente del Consiglio, non accorgersi di tutto quello che le mosse fatte ieri da Meloni rappresentano per la stabilità economica del paese.

 

L’Italia non si guida con le nomine, questo è ovvio, ma quelle di alcuni giganti come Eni, Enel, Poste, Leonardo e Terna possono aiutare a capire come la premier abbia intenzione di guidare l’Italia nei prossimi mesi. E più che sforzarsi di cercare un filo ulteriore tra la stagione di Draghi e quella di Meloni può essere utile capire perché buona parte delle decisioni assunte dal capo dell’esecutivo – decisioni assunte anche nella consapevolezza di irritare gli alleati di governo, che avevano chiesto che almeno un amministratore delegato fosse espressione della volontà non del capo del primo partito della maggioranza ma di quella dei due partiti partner della maggioranza – sono decisioni che non possono non incontrare il favore di chi lavora, come il capo dello stato, affinché le istituzioni facciano di tutto per rafforzare la reputazione del nostro paese. E il fatto che Meloni abbia scelto di affrontare il passaggio delle nomine con un approccio pragmatico, trasversale, senza cioè far pesare più del dovuto le logiche dell’appartenenza su quelle della competenza, lo si può ricavare da diversi segnali lasciati sul terreno di gioco.  

 
Non stravolgere il vertice massimo dell’Eni (vedi il caso di Claudio Descalzi) significa avere a cuore la necessità da parte dell’Italia di non perdere un solo istante nel processo urgente di emancipazione dalla dipendenza energetica russa. Non stravolgere il vertice massimo di Poste (vedi il caso di Matteo Del Fante) significa avere a cuore non solo i numeri di un’azienda ma anche la volontà di non perdere un solo istante nell’implementazione di un progetto particolare, il cosiddetto progetto Polis, che punta a portare tutti i servizi della Pubblica amministrazione nei piccoli centri urbani, e questo sì che sta a cuore al presidente della Repubblica, che ha scelto di presenziare per due anni di fila la convention organizzata da Poste. Scegliere di legare poi alla transizione energetica la transizione di Leonardo, affidando la guida dell’azienda a uno dei ministri del governo Draghi più apprezzati dal Quirinale, Roberto Cingolani, significa aver capito quanto sia importante creare un filo tra la tutela del settore energetico e la tutela dell’industria della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza.

 

Su queste nomine, dunque, Meloni ha scelto di non distruggere equilibri consolidati, ha scelto di scommettere su una buona continuità con il passato e ha scelto di sfidare anche chi all’interno della sua maggioranza cerca con insistenza ragioni per spingere il capo del governo a emanciparsi dall’ala protettiva offerta in questi mesi dal capo dello stato, assecondando una lettura dell’attuale stagione politica, molto avallata dal gruppo Gedi, che non trova riscontro nella realtà e che vedrebbe Sergio Mattarella come il vero capo dell’opposizione a Giorgia Meloni. A questa lettura, avallata anche da alcuni stretti collaboratori del capo del governo, è Giorgia Meloni la prima a non credere e la presidente del Consiglio è la prima a definire “ottimi”, “di fiducia” i rapporti con il capo dello stato, le cui priorità sembrano coincidere perfettamente con le priorità del governo.

 

Punto numero uno: continuare a sostenere la resistenza dell’Ucraina. Punto numero due: continuare a portare avanti la politica di indipendenza energetica dalla Russia. Punto numero tre: lavorare per trasformare l’Italia nell’hub energetico dell’Europa. Punto numero quattro: continuare a essere prudenti sul debito pubblico. Punto numero cinque: fare di tutto per rispettare gli impegni presi dall’Italia con l’Europa sul Pnrr. Tutto questo, naturalmente, non significa che tutti i provvedimenti del governo Meloni siano in sintonia con le idee del capo dello stato (vedi i decreti Sicurezza, per esempio, ma come è noto il presidente della Repubblica interviene non sulle idee dei governi ma solo sugli eventuali profili di costituzionalità). Significa qualcosa di più semplice e di più importante.

 

Sui fondamentali, Meloni e Mattarella se la intendono alla grande. E le nomine presentate ieri dal presidente del Consiglio, nomine che certificano la capacità del capo del governo di mostrare buone doti di decisionismo, ricordano che sulle grandi partite le posizioni della premier sono più vicine a quelle del capo dello stato che a quelle dei suoi alleati. Meloni più Mattarella. Lunga vita al Mattarelloni.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.