Foto di Alessandro Bremec, via LaPresse 

Il commento

Le primarie sono uno show formidabile, ma l'antifascismo non salverà il Pd

Claudio Cerasa

La mancanza di competizione nel Partito democratico non è altro che totale assenza di innovazione e alimenta il mito farlocco dell’unità a sinistra. E preferire le battaglie di facciata con cui spronarsi non sottrarrà i dem dalla loro fuga dalla realtà

Tra le principali ragioni che hanno reso soporifere le primarie del Pd ve n’è una legata a un’espressione che la sinistra italiana tenta da anni disperatamente ed erroneamente di spacciare per un grande valore: l’unità, signora mia. Se ci si riflette un istante, la caratteristica più interessante della competizione tra Elly Schlein e Stefano Bonaccini è stata l’assenza totale di competizione tra i candidati. Non nel senso che potreste credere, ovverosia l’assenza di una partita vera tra i due, ma nel senso letterale del termine: zero competizione, zero dialettica, zero scontri.

 

In politica, l’assenza di competizione tra leader che si contendono un ruolo importante, come lo è quello della segreteria del Pd, spesso produce di riflesso l’assenza di innovazione, la castrazione di ogni novità, e in effetti le primarie del Pd, che restano lo strumento più innovativo esistente in Italia nella selezione della classe dirigente di un partito, hanno messo in campo poche idee, pochi guizzi, poca eccitazione. E la ragione è facile da capire: Bonaccini e Schlein, per evitare di risultare divisivi, hanno cercato di parlare poco delle idee del proprio avversario, e poco dunque anche delle proprie idee, e hanno scelto in modo sistematico di concentrarsi quasi esclusivamente sulle idee del Pd del passato.

 

Il risultato è stato a tratti sconcertate. La cifra stilistica del Pd di Bonaccini, pragmatismo emiliano a parte, è stata quella di presentarsi sulla scena come il vero rottamatore (ops) delle correnti del Pd. Mentre la cifra stilistica di Elly Schlein, il cui messaggio di fondo, femminismo a parte (Schlein nel suo programma dedica una pagina intera all’abolizione del patriarcato), è stato quello di essere lei il vero motore della discontinuità del Pd con la sua storia recente. Ove per storia, naturalmente, si intende la storia recente del Pd di governo e ove per discontinuità ovviamente si intende la demonizzazione di tutto ciò che di buono il Pd ha fatto negli ultimi anni di governo (con il risultato curioso che oggi il Pd le uniche riforme che difende, dal Superbonus al Reddito di cittadinanza, sono quelle fatte dal M5s).

 

Un Pd che ha paura delle sue idee ha dunque prodotto un Congresso la cui principale attività è quella di rimuovere le idee del passato (oltre che rimuovere e demonizzare le uniche stagioni del passato che hanno avvicinato il Pd a una vera vocazione maggioritaria: veltronismo e renzismo). E l’assenza di competizione, mascherata da ricerca dell’unità, ha generato un vizio di forma importante: l’incapacità, da parte dei due candidati, di mostrare con chiarezza la presenza di una battaglia vera tra due sinistre che, almeno sulla carta, incarnano bene il senso della sfida contemporanea presente nelle sinistre mondiali. Una sinistra che considera l’agenda dei diritti più importante rispetto all’agenda dei doveri, una sinistra che considera l'agenda dei doveri più urgente rispetto all’agenda dei diritti. E il risultato di questa azione concentrica, di questa volontaria anestetizzazione delle primarie del Pd, ha prodotto un risultato semplice.

 

Ha avvicinato il Pd al passato, ha allontanato i democratici dalla realtà, ha eliminato dalle primarie ogni forma di creatività, ha espulso dal dibattito congressuale ogni forma di discussione legata alla presenza di un avversario politico diverso rispetto a come il Pd lo aveva immaginato e ha reso la scelta di domenica ai gazebo una sfida non tra due modi diversi di immaginare il futuro ma tra due modi diversi di leggere il passato. Domenica prossima ci renderemo conto che la notizia della morte del Pd è ancora ampiamente esagerata (e forza Bonaccini), ma avere un Pd che ha paura delle sue stesse idee, e che fatica a trovare una battaglia diversa dall’antifascismo di facciata con cui spronarsi, non è certo la premessa migliore per avere una leadership in grado di occuparsi un po’ più di fatti e un po’ meno di farfalle. In bocca al lupo. Evviva le primarie.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.