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Basta dehors! E la guerra dei tavolini minaccia la dolce vita di Bologna

Michele Brambilla

In arrivo la mannaia del sindaco Matteo Lepore che vuole togliere le licenze assegnate dopo il lockdown. Per il filosofo Stefano Bonaga è una “follia culturale”

"Mistico!”, mistico è la parola chiave, dice alla fine Stefano Bonaga, che è filosofo e conosce la forza profonda dell’etimologia: “Mistico viene da Mistykòs, che viene da Myein, che vuol dire chiudere, tacere”. Silenzio, insomma. “Ecco”, dice Bonaga, “il nostro sindaco, Matteo Lepore, vorrebbe che le bellezze della nostra città venissero contemplate in modo mistico. Tacendo. In silenzio. In piedi, al limite della sindrome di Stendhal”.

   

E invece bisogna vivere. Ma Matteo Lepore, sindaco di Bologna dall’11 ottobre 2021 dopo aver fatto per dieci anni l’assessore e dopo aver studiato da sindaco per quarantuno, cioè dalla nascita, vuol togliere i tavolini dei bar dal centro di Bologna. Follia culturale, dice Stefano Bonaga, che è bolognese ed è pure di sinistra, molto di sinistra, certamente più di Lepore: ma giù le mani dai commercianti, dice, e soprattutto giù le mani dal tratto migliore di Bologna, che è convivialità, piacere del cazzeggio davanti a un bicchiere, douceur de vivre come in nessun’altra città d’Italia.

 

Il fatto, per essere precisi, è il seguente. Ai tempi della prima riapertura dopo il lockdown il Comune di Bologna (ma altro sindaco: Virginio Merola, Pd egli pure, anche se in questa città non ci sarebbe bisogno di specificarlo) aveva concesso, a circa duecento bar e ristoranti del centro storico, di aprire delle terrasses che qui chiamano dehors. E la città era tornata a vivere, bella e gioconda ancor più di prima, perché tanta era la voglia di vedersi di nuovo, e guardarsi in faccia, e parlare solo apparentemente a vuoto, che sarebbe poi quel cazzeggio che si diceva, perché il cazzeggio non è perdita di tempo, è fecondo: passando da un bicchiere all’altro e da una cazzata all’altra nascono le idee, le canzoni di Dalla e Guccini nelle notti all’Osteria da Vito al quartiere Cirenaica, e poi quelle di Carboni, di Cremonini e di Vasco al Roxy bar, che sta in via Rizzoli proprio sotto le Torri, anche se qualcuno dice che in realtà il vero Roxy era altrove. Dettagli.

   

La sostanza è che Bologna senza bar, senza tavolini, senza il vino e senza i biassanott (i tiratardi, in dialetto) che circondano le piazze storiche non sarebbe Bologna. Ma Lepore, che è sicuramente una brava persona e un amministratore competente ma non sembra proprio avere l’aria di un allegrone, adesso che il lockdown non c’è più quei duecento dehors li vuole chiudere. Anzi li avrebbe già chiusi dal primo gennaio se il governo Meloni non avesse preso un provvedimento su scala nazionale per prorogare al 30 giugno i permessi rilasciati durante la pandemia. Obtorto collo, Lepore ha obbedito. Ma intanto ha deciso di far pagare ai commercianti la tassa per occupazione di suolo pubblico, che prima era abbuonata. E poi, soprattutto, il 30 giugno vuol far calare la mannaia.

 

I dehors dovrebbero sparire da piazza Santo Stefano, quella delle sette chiese, quella dove si vede sempre Prodi a passeggio perché abita lì vicino, quella dove i fratelli Bonaga (l’altro è Giorgio, professore di chimica, uomo di rara simpatia e contagiosa gioia di stare insieme) e poi Stefano Benni, e poi Giorgio Comaschi, e poi Jimmy Villotti e poi tanti altri personaggi – perché a Bologna non ci sono persone, ci sono personaggi – hanno fondato un club che si chiama Geriatria e che è itinerante, appunto, fra un tavolino e l’altro. Fra quei tavolini che ora il sindaco vuol far sparire.

 

Ma perché poi? “Siamo di fronte a una follia culturale”, dice Bonaga. “I monumenti e le piazze, che sono di uso pubblico, sono fatti affinché la bellezza sia messa a disposizione di tutti. Il consumo della bellezza deve essere condiviso, e la bellezza, l’arte, non prevede la sofferenza di chi la vede. Può prevedere la sofferenza di chi l’ha creata: ma non di chi l’ammira. E che cosa vorrebbe il sindaco? Che queste bellezze fossero osservate da passanti che non hanno la possibilità neppure di sedersi. Che non hanno la possibilità di sostare se non in piedi.

   

"E quindi”, continua Bonaga, “dove vuole arrivare il sindaco? Vuole che l’uso culturale delle piazze dei monumenti sia una visione estatica e silenziosa? Mi pare che Lepore abbia una curiosa concezione dell’esperienza estetica: la vuole estatica, mistica e statica, appunto. In piedi, fermi, tacendo”.

 

Allora io non so chi, fra i lettori, conosca Bologna. Ma se appena la conosce, s’immagini la piazza Santo Stefano, e la via delle Moline, e il Mercato delle Erbe, e insomma tutti quegli spazi in cui si vive e si respira allegria, ecco, se li immagini senza tavolini. Piazze e strade vuote. “Vorrebbe dire avere una città svenuta”, dice Bonaga. “Al di là della delusione di commercianti e turisti, è un diritto della cittadinanza godere delle piazze in maniera conviviale. La bellezza di una città non la si gode guardandola, ma vivendola. L’esperienza estetica deve riempirti, non privarti di qualche cosa. Invece il sindaco vuole una contemplazione mistica e sofferente”.

 

Mistica o comunista? Perché c’è chi sospetta che quella di Lepore sia un po’ una visione da Berlino Est, e sospetta forse che ci sia pure un qualcosa di irrisolto nel pregiudizio a volte un po’ rancoroso che una certa sinistra ha nei confronti dei commercianti. Occupano il suolo pubblico. Guadagnano. Non fanno gli scontrini. E via. 
   

Ma Bonaga – che se gli dai del comunista non si offende, anzi – la pensa così: “Sarebbe una visione grottesca del comunismo. Sarebbe una gestione sbagliata e prepotente della città. Autoritaria. Ecco, la parola giusta è autoritaria”.
   

E se così parla il compagno Bonaga, figuratevi che cosa possano pensare i commercianti. E tutti coloro che oziano, o meglio fingono di oziare, sui tavolini dei bar di piazza Santo Stefano e dintorni. 
   

La guerra dei tavolini è ormai, appunto, una guerra. Una questione di vita o di morte per Bologna. “Salvate la città”, è l’appello che sale dalle piazze e dai vicoli attorno alle Torri. Anche perché i tavolini non servono solo per lo star bene e per il cazzeggio creativo: servono anche per tenere lontani spacciatori e scippatori, stupratori e delinquenti. Tutta gente cui va di lusso nelle città deserte, non in quelle piene e perfin rumorose. Le piazze non sono sicure se sono piene di militari e poliziotti: sono sicure se sono piene di gente che ha voglia di vivere.

 

I vecchi bolognesi dicono tutti che la città, comunque, non è già più quella di una volta, quando sì che era viva. Ma non date loro retta: dicon così da sempre. Quando Guccini cantava “sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta / ma la gente che ci andava a bere fuori e dentro è tutta morta” era il 1974. Poi sono arrivati gli anni Ottanta e i Novanta, oggi rimpianti come tempi beati.

 

Si rimpiange sempre il passato. Ma Bologna è ancora la città dove vivere è più bello che altrove, e chi viene da fuori lo sa bene. Non per i servizi o l’aria pulita o quelle cose contemplate dalle classifiche annuali: ma per la sua capacità di accogliere (sono mille anni che accoglie: da quando c’è l’università) e di far star bene. Basterebbe togliere un po’ di tavolini per rovinarla.

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