Ansa

Bilancio di una luna di miele

Processo ai cento giorni del governo Meloni. Un girotondo fogliante

Le cose fatte e le promesse non mantenute. Il colore di questo centrodestra. La conferma della linea atlantista ed europeista e gli strappi di alcuni ministri. Il revanscismo sotto traccia e il balletto delle nomine. Le nostre opinioni (con sorprese)

Perché è accettata, apprezzata, amata

È accettata da chi pensa che il suo governo sia frutto della democrazia e dell’alternanza, di cui beneficiano anche le opposizioni (dove esistono), come dimostra proprio il successo elettorale di Meloni. È amata da quanti sostengono che l’Italia dovrebbe avere più giovani al governo. Le è riconosciuto molto fiuto nello scegliere, per due posizioni chiave, come i ministeri dell’Interno e della Giustizia, due uomini che vengono dall’interno di quegli apparati, perché così si dà spazio alla competenza. Piace a chi ama la gestione ordinata, perché convoca e presiede con regolarità il Consiglio dei ministri, assicurandosi che alle riunioni i partecipanti arrivino preparati. È apprezzata dagli amanti della musica classica, perché sa governare i tempi e guidare gli orchestrali, alternando voce e silenzio. Viene considerata una persona seria da coloro che considerano con interesse chi adegua le sue idee alla realtà, sapendo cambiarle per non perdere il contatto con le circostanze. È vista con scetticismo – quando dichiara che la ricchezza la creano soltanto le aziende – da chi pensa che troppi governanti abbiano fatto professione di fede liberale, limitandosi a un liberismo verbale. Viene compresa, ma non perdonata, da chi pensa che poteva evitare di firmare il decreto sul “rave party”, anche se la giustifica perché era appena all’inizio del suo mandato. È oggetto di speculazioni da parte di chi si chiede in quale direzione e come guiderà il suo partito, ora che è al governo. È seguita con curiosità da chi si chiede quale sarà la sua politica, considerando l’assenza di programmi veri di tutte le forze politiche. È ammirata da chi sa che vuol dire lavorare sodo e crescere una figlia piccola.

Sabino Cassese

 



 

Bene sul bilancio, ma troppi Capitan Fracassa

Diceva Einstein: mai giudicare un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi. Ergo, i cento giorni di Meloni vanno giudicati secondo il criterio suo, non mio. E’ partita bene con saldi di bilancio 2023 rassicuranti. Altrettanto su Ucraina. Ma nel governo troppi Capitan Fracassa. Il decreto rave di Piantedosi era di rara improntitudine e altrettanto sarà il decreto su Ong. Butti su delega Tim ne ha inabissato il titolo, finché non è stato “disciplinato”. Di Crosetto, ignoro cosa lo abbia indotto ai toni riservati a Bce e nomine-machete. Il viceministro Leo annunciava condoni in legge di bilancio, poi smentito. Nordio va difeso. Fitto lavora in silenzio. Urso evita sbavature avvenute sotto Draghi su Isab e Ita. Sangiuliano è una fabbrica di boutade. Lanciare il presidenzialismo come scatola vuota è un boomerang, come la fretta di Salvini su autonomia differenziata senza aver chiaro quanto costano i Lep e come finanziarli al Sud. Sul costo carburanti il governo ha fatto figura di palta. La maggioranza è un cavallo che scarta in direzioni opposte. Imparare a tenerne le redini è cosa ardua. Ma intanto i guai non stanno ad aspettare.

Oscar Giannino

 



 

La barca va a zig zag, meglio che affondare

Era arrivata a capo del governo con un handicap aggiuntivo. Doveva evitare lo scoglio della diffidenza verso le sue origini ideologiche, e al tempo stesso lo scoglio dell’ebbrezza ideologica dei suoi, del “liberi tutti ora che il governo è nostro”. Bastava un nonnulla per perdere il credito che, grazie a Draghi, l’Italia aveva in Europa. Bisogna dire che si è finora barcamenata. Con un po’di fortuna, che è l’ingrediente più importante di qualsiasi navigazione. E anche però grazie a una certa abilità, all’insospettata agilità e alla prontezza di riflessi con cui ha virato e fatto marcia indietro prima di andare a sbattere e affondare.
Ha frenato lo zelo ideologico di alcuni dei suoi ministri giusto un attimo prima del crash. Ha dimostrato di saper dire di no, o almeno un “abbiate ancora un po’ di pazienza” a quei settori del suo elettorato che si aspettavano il pagamento immediato di quanto gli era stato promesso. Ha saputo bene o male tenere a freno gli alleati più truci. Quelli che volevano gettare a mare gli immigrati, meno tasse subito per i più ricchi, meno controlli fiscali, finanze più allegre, premiare i No vax e chi non paga le tasse, difendono la libertà assoluta di vantarsi, senza venire intercettati, dei propri sporchi affari anche al telefono. Ha dimostrato di sapere dire di no ad alcuni suoi grandi elettori. Chissà se dopo i benzinai riuscirà a scontentare anche balneari e tassisti. Poteva fare anche meglio. Ad esempio licenziare subito i ministri che hanno fatto al suo governo più danni di tutta l’opposizione messa insieme. O bacchettare un po’ più chiaramente i suoi amici “nostalgici”. Ma ci si può accontentare: una barca che va a zig zag è meglio di una che va a fondo.

Siegmund Ginzberg

 



 

Finché c’è, bisogna goderselo questo governo

Già cento giorni? Come passa il tempo! Comunque vorrei che il governo Meloni festeggiasse i 1.000 giorni e, fosse possibile, anche i 10.000. Un po’ perché sono un conservatore e detesto i cambiamenti. Un po’ perché un governo che non chiude le chiese e non vieta il contante mi risulta più sopportabile dei governi che lo hanno preceduto e, temo, dei governi che lo seguiranno. Un po’ perché dove lo trovo un altro presidente del Consiglio con cui condividere autori non scolastici? Mi riferisco al fatto che Giorgia Meloni ha letto Roger Scruton, filosofo dai numerosi meriti: cacciatore, carnivoro, monarchico, pessimista, giurato di un premio di pittura da me organizzato… E poi quando rispunterà un governo con personalità squillanti quali Nordio e Sgarbi? Sia chiaro, un governo italiano può fare pochissimo ma quel pochissimo di libertà che il Leviatano globale consente, al piccolo protettorato decadente che siamo, Giorgia Meloni lo difende e cerca perfino di estenderlo un po’: da 2.000 a 5.000 euri, parlando di contante… Dopo di lei sarà il diluvio ossia quel controllo totale che fa rima con denaro digitale. Finché c’è bisogna goderselo, il governo Meloni.

Camillo Langone

 


 

Sembrava un falò, è una candela già mezza sciolta

Per comprare un litro di latte quest’estate serviva 1,60 euro, ora è passato a 2,40: l’inflazione trotta intorno al 10 per cento, ma su molti prodotti di prima necessità galoppa ancora più forte. La benzina è schizzata in alto, a cifre impossibili, per il mancato taglio delle accise, e naturalmente porterà a rincari a catena su tutto il resto.  Le bollette sono sempre più care e devastano le povere economie familiari. Una marea di soldi elargiti dall’Europa rischiano di volatizzarsi perché nessuno al governo sa come spenderli. La Meloni, in un messaggio per il suo recente compleanno, si augura di essere “audace, concreta, veloce e coraggiosa”, ma temo che già si stia arenando nelle sabbie mobili dell’indecisione e del compromesso. Ormai il cittadino qualunque, categoria alla quale anch’io appartengo, comincia a sospettare che ogni promessa finisca per spegnersi in un’inerzia obbediente a volontà superiori, cioè a quello che confusamente possiamo definire il sistema economico e sociale dell’Occidente. Il primo ministro potrebbe essere San Francesco oppure Attila e le cose non cambierebbero di molto. Sì, ci potrà essere maggiore o minore attenzione per le minoranze di ogni genere e tipo, qualche spicciolo in più o in meno per i lavoratori dipendenti, un po’ di pale eoliche a girare al vento, due asili nido in più, ma la direzione della politica sembra ormai dipendere da libri maestri e volontà che la prescindono e la controllano. Per questo sempre meno gente andrà a votare: l’attimo di entusiasmo, a destra come a sinistra, dura proprio un attimo, e poi le cose procedono indifferenti a ogni bandiera sventolata al vento delle buone intenzioni. La Meloni si spegne comizio dopo comizio, inevitabilmente. Da ex fascista vorrebbe imporre una politica decisionista, poche parole e molte ruspe e gru, ma già ha il fiato corto e deve attaccarsi alla bombola d’ossigeno della retorica per continuare a essere un minimo credibile. Di solito nei primi cento giorni ogni governo spara le sue cartucce più potenti per dimostrare che le cose si possono cambiare, che già stanno cambiando: la Meloni invece, nonostante l’apparente grinta leonina, mi sembra timida, inesperta, zoppicante come l’ultima delle gazzelle. E poi, come sempre accade in Italia, deve fare i conti con alleati infidi, con amici pronti alla coltellata, e con i suoi antichi camerati sempre bravi a cantare l’inno nazionale, ma stonatissimi nella musica di tutti i giorni, inetti e abbastanza ignoranti su come si governa un paese. Insomma, siamo di nuovo e come sempre in crisi, la povertà dilaga (un milione e mezzo di bambini vivono nell’indigenza totale), non riusciamo nemmeno ad allungare il cappello e a raccogliere la carità europea, tutto sembra inclinare malinconicamente verso il peggio. La Meloni sembrava un falò ed è una candelina già mezza sciolta. Cento giorni non sono tanti, ma neanche pochi: la gente aspetta un miracolo, ma qui i pani e i pesci invece di moltiplicarsi sembrano svanire.

Marco Lodoli

 



 

Gli alleati mettono i bastoni tra le ruote

Sono le preghiere esaudite. Vedi alla voce: “Si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle respinte” (copyright Truman Capote, che prende un pensiero di Santa Teresa D’Avila e ne fa una maledizione). Sgobbi per arrivare lassù, e in meno di 100 giorni capisci che la cima non è tanto comoda. Tocca decidere, farsi dei nemici, mentre gli alleati – di nome, soltanto – mettono i bastoni tra le ruote, si dissociano, rilasciano dichiarazioni che dire fuori linea è un eufemismo. Capita al discolo promosso capoclasse. Tutti ce l’hanno con te, anche chi prima obbediva alla maestra. Nomini un ministro personalmente scelto, e le prime sue interviste scatenano il putiferio. Costringi ai compiti in materia di spiagge (per dirne una, annosa storia italiana di privilegi) e ti ritrovi gli alleati che fanno muro: indietro con il lavoro, e scettici, “ma davvero c’era un compito da consegnare?” Ogni video fatto in passato rispunta per metterti in difficoltà. La poltrona del potere è peggio del  “Trono di spade”. E prima o poi, magari, si sveglia pure l’opposizione.

Mariarosa Mancuso

 


 

Alti e bassi, signora mia. Fascismo comunque poco

Dopo le grandi angosce della campagna elettorale, subito un’atmosfera più distesa. Anche ai più progressisti di noi sarà capitato di finire a una cena dove a un certo punto cadeva la maschera: “Ma lo sai che Giorgia, ti dirò, credevo peggio, pensavo più gaffe, più figuracce, più braccia tese, invece hai visto che sorrisoni anche con Ursula”, eccetera.  Certo, in pubblico non si può dire. Si resta sul chi va là. Antifascisti sempre. Partiti maluccio sui rave, poi bene su Nordio, benissimo sul reddito. Alti e bassi, signora mia. Fascismo comunque pochino. Anche la Resistenza si è un po’ arenata. Ci aspettavamo più raduni, scioperi, occupazioni, assemblee, adunate, sfilate, sia di protesta che anche magari di festa. Sembra invece ieri che ci azzuffavamo sulla fiamma e i rigurgiti. Ma in tre mesi siamo passati da “Mussolini était un bon politicien” a “Enrico Mattei è stato il più grande italiano del dopoguerra”, magari anche a un ponte di gas con l’Algeria. E’ la Garbatella da esportazione, mercatista, atlantista, spregiudicata. Quella che ci piace di più. Meglio Giorgia in viaggio verso nuove avventure che starsene a casa a cantare le gesta della famiglia. Tradizionale.

Andrea Minuz

 


 

Per i 200 giorni chiederà di essere chiamata Giorgio

Quello che abbiamo potuto vedere in questi primi cento giorni di governo Meloni è quanto “Giorgia” sia una figura di spicco della sinistra italiana. Ebbene sì, Giorgia Meloni non è certo di destra; né tantomeno fascista come qualcuno temeva o accusava. Semmai, quella di Giorgia Meloni è stata circonvenzione di fascisti. Nonostante una serie di richiami pavloviani alla destra più becera (poi puntualmente smentiti nei fatti), Giorgia Meloni si è distinta come figura progressista. Sin dal suo profilo: cresciuta in periferia, da sempre baluardo e bandiera della sinistra; allevata dalla sola madre, quindi in una famiglia non tradizionale; ha una figlia fuori dal matrimonio, quindi a sua volta ha messo su una famiglia non tradizionale; è la prima donna presidente del Consiglio. Più di sinistra di così! Persino la sua battaglia linguistica sull’articolo “il” e non “la” da apporre a “presidente del Consiglio” è chiaramente una battaglia di sinistra: Giorgia Meloni, “il” presidente del Consiglio, sta evidentemente affrontando un percorso di transizione. Per i duecento giorni di governo, grazie agli ormoni, chiederà anche di essere chiamata Giorgio.

Saverio Raimondo

 


 

Cento giorni tutt’altro che vuoti

Se dovessimo giudicare dai fatti i primi cento giorni delle leadership politiche alle prese con l’esperienza del governo, nessuna (o quasi) sopravvivrebbe. I primi cento giorni di un qualunque esecutivo sono dettati infatti dalle condizioni iniziali: la legge di Bilancio 2023 ne è un plastico esempio. Altri, quindi, devono essere i metri di giudizio. Uno in particolare: le parole. Attenzione: non le chiacchiere (che ormai associamo di default alla politica). No, le parole. Quelle che pesano. Quelle in grado di definire il quotidiano delle persone. Nel nostro caso, quelle capaci di cambiare, eventualmente, il modo in cui gli italiani leggono sé stessi e il proprio rapporto con il mondo che li circonda. E sotto questo profilo i primi cento giorni del presidente del Consiglio sono stati tutt’altro che vuoti. Le condizioni entro le quali deve svolgersi l’iniziativa privata: “Non disturbare chi fa”. La responsabilità individuale: “Se non sei disponibile a lavorare con contratto regolare sei libero di farlo ma non puoi pretendere che lo stato ti mantenga”. Sono solo due esempi dei tanti che si potrebbero citare. Sono parole che si possono condividere o meno – e chi scrive le trova spesso condivisibili – ma che indubbiamente suggeriscono agli italiani un immaginario collettivo diverso da quello frequentato negli ultimi tempi. Non è scontato che abbiano un seguito ma, in cento giorni, non è poco.

Nicola Rossi

 


 

Un’esibita dose di revanscismo collettivo

Comincia sempre da lì il bilancio, dal riconoscimento che 1) sull’invasione russa dell’Ucraina, compreso l’invio delle armi, ha mantenuto la linea atlantista ed europea perfettamente componibile con le indicazioni del Quirinale. E che 2) la legge di Bilancio è stata attenta a non forzare sui conti pubblici come raccomandato da Bruxelles. Il punto è che tuttavia nel considerare i primi cento giorni di Giorgia Meloni al governo segue l’avversativa. E qui, sul “ma” e sul “però”, alle riluttanze sul Covid e sulla scienza, al labirinto delle retromarce e delle incoerenze (alcune felici), dell’annuncio stentoreo corretto per tappe sui quali esiste vasta letteratura, si intravede altro, un elemento laterale e però rivelatore e potenzialmente scivoloso: il sapore della rivalsa.  Il “machete” di Crosetto contro la burocrazia, gli attacchi di Fazzolari a Bankitalia, le sortite poco istituzionali di La Russa contro la sinistra, la sostituzione del direttore generale del tesoro Alessandro Rivera fino al ministro Sangiuliano su Dante di destra o la commissione parlamentare di inchiesta sulla violenza politica negli anni 70 proposta da Rampelli, sono collegati da una esibita dose di revanscismo collettivo. Come se nel giro di cento giorni l’autoironia dell’underdog fosse già diventata narcisismo. Atteggiamento pericoloso se non temperato da leadership solide e se premessa di uno spoils system smanioso. L’esperienza di Alemanno sindaco di Roma continua a consigliare prudenza.

Alessandra Sardoni

 


 

Il reddito di cittadinanza ancora banco di prova

Si dice che con il governo Meloni sia tornata la politica. In effetti, della politica c’è il fare a beneficio di telecamere: gli obblighi e le sanzioni a carico dei benzinai sono un attivismo utile a dirottare l’attenzione su una scelta giusta ma impopolare quale è stata l’eliminazione dello sconto sulle accise. Della politica, c’è l’esigenza di dettare un’agenda anche laddove non c’è ancora nulla da dire: dati i pochi margini di manovra economico-finanziaria, a ridosso dell’approvazione della legge di Bilancio Giorgia Meloni ha avviato la narrazione di riforme costituzionali di cui al momento c’è solo un incerto titolo (presidenzialismo? semipresidenzialismo? premierato?). Ancora, c’è l’attendismo sulle questioni più controverse come i bagnini, e al tempo stesso la capacità di assumere decisioni difficili rispetto al riferimento elettorale della coalizione, come nel caso di quota 103 o della riforma del Mes. Che sia tornata la politica, tuttavia, non significa necessariamente che vi sia un indirizzo politico. Per il momento, l’impressione è che l’attitudine decisionale sia legata a due circostanze: nel caso di questioni ai margini, come la riforma di App18 o la chiusura di It’sArt; o di questioni lasciate in eredità dal governo precedente. Il decreto legislativo sulla non autosufficienza e gli anziani, il decreto appalti, il decreto sui servizi pubblici locali, la legge di bilancio sono stati approvati nel solco di quanto predisposto dal governo Draghi. C’è un tema che potrà essere un banco di prova: il reddito di cittadinanza. Il governo lo ha sì abrogato, ma a partire dal primo gennaio 2024. Nel frattempo, per il 2023 è riconosciuto per massimo sette mensilità.  Il reddito di cittadinanza è stato una misura politica di enorme impatto culturale, prima ancora che economico. Eliminarlo potrebbe quasi costituire da solo un intero programma di governo, esattamente come introdurlo ha segnato la fortuna e la politica del Movimento 5 stelle. Perché accada, serve l’arte di governo, e non solo della politica.

Serena Sileoni

 

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