Dr. Giorgetti e Mr. Hyde. Un ritratto del ministro dell'Economia

Valerio Valentini

Voleva la presidenza della Camera, è finito a via XX Settembre. Voleva uscire dall’euro, è diventato l’amico di Draghi. Mes, pensioni, Pos, Europa: tra Meloni e Salvini, perché la sopravvivenza del governo passa per le inevitabili abiure e le doppiezze del bocconiano della Lega

Nella Lega sono sorpresi che non abbia ancora minacciato le dimissioni. “Di solito fa così”, dicono. Lo ha fatto, in effetti, da vicesegretario e da responsabile Esteri del partito; lo ha fatto da ministro dello Sviluppo economico. C’era da attendersi che anche ora, anzi soprattutto ora che ricopre il più rognoso degli incarichi di prestigio, Giancarlo Giorgetti ricorresse a quell’estremo ricatto. Sempre con toni felpati, sempre quasi a ribadire di non sentirsi indispensabile, ché lui non smania di stare in prima fila, anzi. “Se non mi si ritiene all’altezza, faccio un passo indietro”. Dunque le quotazioni di Via Bellerio dicevano: “Entro sei mesi”. Tanto più che, fosse stato per lui, neppure ci sarebbe andato a Via XX Settembre. E non era solo una riluttanza di facciata, quella sua solita coazione a scansare gli impacci – un po’ come Don Abbondio provava sempre a tenere la sua mula lontana dalle tracce più sdrucciolevoli del sentiero – con cui ha sempre cercato, di volta in volta, di eludere le richieste di chi voleva investirlo di responsabilità. Stavolta era stata un’ambizione sincera, ma contraria, a indurlo a resistere quasi oltre il tempo massimo, a brigare fino all’ultimo, anche dopo avere offerto rassicurazioni a Giorgia Meloni, per tenersi alla larga dal ministero dell’Economia. E infatti Matteo Salvini la richiesta se l’è vista rinnovare, ancora, alla vigilia dell’elezione di Lorenzo Fontana, quando i giochi ormai erano chiusi. “Me lo merito, no?”. Perché era quello il posto che Giorgetti aveva sognato per sé: la presidenza della Camera, il cantuccio dorato di chi immagina ulteriori apoteosi, negli anni a venire, o semplicemente la tranquillità di un lustro di onori e di omaggi, ma al riparo dagli affanni: una legislatura da gran signore, e poi un futuro da riserva della Repubblica. 

 

Fosse stato per lui, non sarebbe andato a Via XX Settembre. E non era solo la sua solita coazione a scansare gli impacci con cui ha sempre cercato di eludere le richieste di chi voleva investirlo di responsabilità

 
E invece no. Salvini è stato irremovibile, “ché la Meloni non vuole Fontana al governo”, per cui la ricompensa all’amico di sempre doveva per forza essere lo scranno più alto di Montecitorio, “sennò poi sai che cinema”. E Meloni non aveva grandi alternative: era partita con Fabio Panetta, membro del Comitato esecutivo della Bce a cui aveva promesso l’impossibile, pur di strappargli un sì per il ministero dell’Economia, anche solo come transito obbligato verso il vertice di Banca d’Italia, e s’era ritrovata impantanata in una ricerca senza esito. “Devi andarci tu, Giancarlo, sono sicura che farai benissimo”, aveva allora rilanciato. E lui, pur senza entusiasmi, s’era lasciato convincere a suon di lusinghe. Del resto c’è un motivo se nel Carroccio c’è chi, come Giulio Centemero, lo chiama affettuosamente “Gatto Giuliano”: come quello di “Kiss me Licia”, tutto sornione e diffidente, ma in verità assai sensibile alle carezze. “Gli piace farsi desiderare: davanti ai complimenti, fa le fusa”. E insomma, apparentemente più scettico che onorato, ha accettato. Bofonchiando, ovvio, come al solito.

 

C’è chi, come Giulio Centemero, lo chiama affettuosamente “Gatto Giuliano”: come quello di “Kiss me Licia”, tutto sornione e diffidente, ma in verità assai sensibile alle carezze. “Gli piace farsi desiderare”

 
Forse anche per questo, mentre lui giurava al Quirinale, nel Carroccio c’era chi rivedeva addirittura al ribasso le previsioni: “Non chiude la legge di Bilancio: molla prima”. E non che siano mancati i momenti di tensione. Quando Tommaso Foti, il capogruppo di FdI alla Camera, ha inveito contro il presunto lassismo dei tecnici della Ragioneria generale dello Stato, imputando alla loro assenza da Montecitorio i motivi dei ritardi nella definizione della Finanziaria, ha anche alzato il telefono per chiamare direttamente Giorgia Meloni. “Non posso tollerare che dalla maggioranza mettano in dubbio la lealtà dei miei uffici”. Al che la presidente del Consiglio ha richiamato all’ordine i suoi, ha imposto la linea del rigore: “Giancarlo non si tocca”. E tutto s’è risolto. 


Dimostrazione di un legame, quello tra la capa del governo e il responsabile dell’Economia, che resta solido a dispetto delle molte maldicenze che lo contornano. Non da oggi, ma neppure da sempre. Perché Giorgetti, che il Fronte della gioventù lombardo lo ha bazzicato da ragazzo, prima della folgorazione bossiana, nei confronti di Meloni ha a lungo nutrito un certo risentimento, che pure era segno di stima. Nel senso che ha sempre visto nella cocciutaggine barricadiera della leader della destra il richiamo della foresta a cui Salvini cedeva, lo spauracchio che impediva al suo segretario di imboccare risolutamente la via della moderazione. “E Matteo non s’accorge che, a tempo debito, sarà lei a fregarlo e a puntare verso il centro”, si sfogò con uno dei confidenti a fine 2021, alla vigilia della gran baruffa quirinalizia.

 


Previsione che, va detto, aveva una certa fondatezza. E infatti quando la svolta è avvenuta, quando Meloni ha gettato a mare l’armamentario da oltranzista della protesta, lasciando che a baloccarsi nel girone degli appestati d’Europa insieme a Le Pen e ai fascistoidi di Alternative für Deutschland restasse Salvini mentre lei si guadagnava la strada per Palazzo Chigi dispensando ossequi e riverenze a Mario Draghi, ecco che l’astio s’è trasformato in ammirazione. “Mi chiama quattro o cinque volte al giorno”, diceva Giorgetti all’indomani delle elezioni del 25 settembre, mentre si imbastivano le trattative per il governo da farsi. Per lo più, i colloqui gravitavano intorno al solito tema: come evitare che Salvini facesse sciocchezze. Di lì un’intesa crescente, una sostanziale comunione d’intenti e di vedute che dura tuttora.


Anche adesso che, a complicare il rapporto tra il ministro e la sua premier c’è di mezzo Alessandro Rivera. Per Meloni, è ormai una questione di dignità, un puntiglio fattosi quasi ossessione: “Se resta, ci perdo la faccia”. Dunque no, pare proprio che non resterà, che l’avvicendamento al vertice del Tesoro è questione di settimane. E questo, nonostante Giorgetti ci tenga a far sapere che, dipendesse da lui, potesse davvero decidere lui in autonomia, nessuno toccherebbe Rivera. Il quale, da uomo di mondo avvezzo alle furbizie che la politica impone, sin dall’inizio s’era fatto poche illusioni: che Giorgetti se lo sarebbe tenuto buono per redigere una legge di Bilancio proibitiva, ne avrebbe senz’altro sfruttato la rete di contatti in Europa, forse avrebbe anche abbozzato una manovra di difesa, ma al dunque non si sarebbe certo impiccato per lui. Un attimo prima di dover capitolare, quando tenere davvero il punto significherebbe andare allo scontro, Giorgetti allarga sempre le braccia. Come a dire: e vabbè, è andata così.


A meno che non sia vera l’altra teoria, accreditata da chi più stima il ministro. E cioè che il siluramento di Rivera il leghista lo avesse messo in conto fin dall’inizio, e abbia anzi lasciato trapelare la sua affezione verso il direttore generale del Tesoro proprio sapendo che altri, e cioè i patrioti di FdI, ne avrebbero allora, con maggior foga, invocato lo scalpo. E lui allora si sarebbe speso – come in effetti sta avvenendo – per fare in modo che il tutto avvenisse in modo ordinato, col galateo istituzionale che si conviene (“Non si urla mai contro la gente che vuoi rimuovere”): per cui Rivera potrebbe ottenere un posto alla Bei, la Banca europea degli investimenti; e al Tesoro verrà nominato qualcuno di cui Giorgetti si fida. Forse non quello Stefano Scalera che di Rivera è peraltro amico di vecchia data; forse toccherà a Cristiano Cannarsa, ingegnere meccanico con un’esperienza consolidata dentro l’amministrazione pubblica, gran conoscitore del sottobosco capitolino delle partecipate e attuale amministratore delegato di Consip, la centrale acquisti della Pubblica amministrazione, dopo essere già stato, e con profitto, a capo di Sogei. “E così Giancarlo – racconta un suo collaboratore – ha ottenuto di rimuovere Rivera lasciando che fosse la Meloni a intestarsi l’operazione, così da uscirne immacolato”.


Troppo ardita, come ricostruzione? Può darsi. Di certo c’è che con Giorgetti è sempre così: non si sa mai se il suo agire sia motivato da calcoli raffinatissimi, la freddezza serafica anche davanti alla vertigine dei precipizi più imprevisti, oppure da una paraculissima indolenza. Massimo Garavaglia, che è suo allievo devoto, dice spesso che “Giancarlo mi ha insegnato che la politica è difficile proprio perché è semplice”, e cioè che gli eventi vanno assecondati, non forzati. Carlo Calenda, scherzando chissà fino a che punto, dopo averlo sondato su un possibile accordo per un “polo draghiano”, si arrese alla sua accidia: “Secondo me vuole restare in un partito di brocchi così che possa sempre emergere come il più intelligente”. Lui per lo più se la ride, sapendo che comunque questa sua enigmaticità è già un successo, ché contribuisce evidentemente ad alimentare il suo piccolo grande mito personale.


E’ il giorgettismo, insomma, uno stato dell’animo, un modo di essere e di intendere la politica, che qui sul Foglio, tempo addietro, provammo anche a definire con una certa approssimazione: è quella pratica di apparire estremamente acuto nel difendere scelte scriteriate, la prudenza nei modi esibita a tutela della bizzarria delle azioni compiute, l’essere immune a se stesso, il confutarsi nell’istante stesso in cui si riafferma la propria coerenza. Forse sta qui, in questa estrema versione della furbizia italica, l’ineffabile capacità di Giorgetti di ergersi al di sopra delle sue mancanze.


Mancanze spesso anche fisiche. Perché, per uno che considera la politica “per il 10 per cento strategia, e per il 90 per cento metterci una toppa”, ci sta che quando le contingenze prendono il sopravvento, il ritirarsi in disparte sia una tentazione irresistibile. Non a caso uno dei suoi refrain, una frase che ormai suona un poco frusta alle orecchie dei leghisti che troppe volte gliel’hanno sentita pronunciare, è questa: “Me ne torno a Cazzago”. O anche: “Se non sono gradito, ho sempre Cazzago”. Cincinnato padano. Il riferimento è al suo paese d’origine, Cazzago Brabbia, buen retiro spesso evocato appunto come asilo politico e come piccolo universo a sé stante, nido e scenografia privilegiata del romanzo di formazione politica del Giancarlo, che del suo paese è stato a dieci anni sindaco prima del gran debutto romano. Ed è lì che ha imparato, da suo padre e dalla vita, quell’arte dell’attesa e della pazienza come dottrina fondante del suo lasciar correre, del suo apparente lassismo. “Ho la pazienza del pescatore”, ribatte sempre lui a chi gli rimprovera la scarsa propensione alla pugna, ricordando il mestiere del papà Natale. E manco pesca di fiume, che pure ha un che di brio: pesca di lago, roba da svenarsi di noia, nel suo lago di Varese, a due passi da casa sua, di recente tornato balneabile per volere di Attilio Fontana. Con grande scorno proprio di Giorgetti, che ovviamente ha fatto buon viso a cattivo gioco plaudendo all’“ottimo risultato della giunta regionale lombarda”, lui che la mancanza di turisti chiassosi non la disdegnava affatto, ché i pedalò e gli spruzzi e il baccano delle famigliole in gita spaventano i persici e le tinche (che già tocca contenderli ai cormorani della palude), e poi addio risotto al coregone, che è tra i suoi piatti preferiti.


Non era lì, però, a Cazzago, che bisognò andarlo a cercare a Ferragosto del 2019. Erano i giorni della crisi del Papeete, la tentata scalata al cielo di Salvini che finalmente s’era deciso, anche se con fatale ritardo, a rompere col grillismo e provare la via delle elezioni anticipate. Giorgetti quel sentiero glielo aveva indicato per mesi, dopo il trionfo delle europee. Solo che appena le cose si misero male, con la resistenza esasperata di Giuseppe Conte, gli abboccamenti sempre più frequenti tra Pd e M5s, e Matteo Renzi che faceva già le capriole, Giorgetti scomparve. In dissenso rispetto ai modi e ai tempi di un’operazione politica che lui aveva sì auspicato, ma non in quella forma, pare, e non così tardi. Sta di fatto che mentre il paese viveva la crisi più politica più sgangherata della storia repubblicana, il Giancarlo passeggiava per i sentieri della Valchiavenna, tra Campodolcino e Madesimo, in luoghi che tanto gli sono cari. Col cellulare quasi sempre spento, quasi sempre irraggiungibile.


Che l’arte della fuga fosse praticata con metodica precisione, d’altronde, se ne sarebbe accorto anni dopo anche Draghi. Che spesso a Giorgetti guardava come chi cerca un puntello di ragionevolezza in una selva di esagitati, confidava insomma che fosse lui, il ministro dello Sviluppo, uno dei pochissimi a cui il presidente del Consiglio desse del tu all’inizio della sua avventura a Palazzo Chigi, a sedare le intemperanze di Salvini. Non a caso i due, Mario e Giancarlo, si sentirono assiduamente in quei primi giorni di ottobre del 2021, quando i collaboratori del premier erano decisi a dare impulso alla delega fiscale. “Teniamo”, gli garantì Giorgetti. 

 

Poi arrivò il pomeriggio del Cdm, e Salvini impose alla sua delegazione di governo di disertare la riunione decisiva. E fu un mezzo polverone. Ma almeno, in questo caso, c’era l’alibi dell’ordine di scuderia, l’impossibilità di ammutinarsi. Tutte attenuanti a cui invece non ci si poté appellare mesi più tardi. Quando, per due volte, sulle norme di contenimento alla pandemia invise al leader del Carroccio, tra green pass e dintorni, si rischiò la baruffa in Cdm: “E per due volte Giorgetti s’è dato”, ricorda chi c’era. Nel senso che proprio non si presentò. Il 5 gennaio del 2022, e sarà senz’altro vero, per accudire sua madre, che non stava bene. Poi, il 2 febbraio, pare fosse il mal di schiena, la giustificazione.


Il tutto, a cavallo della sfida quirinalizia su cui non poco ha influito, il fare di Giorgetti. Lui ci credeva davvero, alla bontà dell’ascesa di Draghi al Colle. Ci lavorò, perfino, al di là di ogni sospetto. E a Salvini tracciava scenari futuribili: sul fatto che se l’operazione fosse andata in porto, la Lega avrebbe goduto di un credito con l’uomo della Bce diventato capo dello stato, e avrebbe ottenuto finalmente un definitivo lasciapassare in Europa, e Salvini si sarebbe potuto allora intestare una grande operazione politica per rifondare il centrodestra in Italia. Uno zelo sincero, senza ambiguità. E però, a ripensarci col senno del poi, parlandone coi suoi più stretti collaboratori dell’epoca, Draghi ha convenuto che proprio Giorgetti sia stato tra coloro che hanno complicato fin dall’inizio la partita. Perché quelle sue dichiarazioni rilasciate a Bruno Vespa, quella baldanza con cui l’allora ministro dello Sviluppo disse che un Draghi al vertice della Repubblica avrebbe guidato il convoglio dal Colle, che insomma si sarebbe realizzato un presidenzialismo di fatto, aizzò la cagnara di chi nell’elezione del banchiere di Città della Pieve al Quirinale volle vederci chissà che torsione autoritaria, un disegno dispotico. Poi finì come si sa. E tocca chiedersi, ovviamente, se in quel cortocircuito di Giorgetti ci fu più malizia e insipienza, sopraffina dissimulazione o superficialità: e poi forse rassegnarsi all’inafferrabilità del giorgettismo.

 
Ma c’è da constatare, anche, come a fronte di questo mezzo sgarbo, nonostante quel che è stato, Draghi conservi una simpatia umana reale, per Giorgetti. E i due si sentono, e si confrontano, più spesso di quel che si racconta. Ché pure questo, allora, è giorgettismo: il riuscire quasi sempre simpatico più agli avversari che non agli amici. Pure con Paolo Gentiloni, per dire, i rapporti sono improntati, e da tempo, a una cordialità che va oltre la grammatica istituzionale. “E’ uno con cui è piacevole conversare, ed è uno che ti induce ad abbassare le difese”, lo descrive un suo ex collega di governo del Pd. Perfino Christian Lindner, il ministro delle Finanze tedesco, liberale e rigorista, austerità teutonica a ventiquattro carati, uno che insomma avrebbe tutte le ragioni per avere in antipatia un secessionista padano antieuropeista che invoca la soppressione dei vincoli di bilancio, pare ne dica ogni bene: e ogni volta che si vedono, a Bruxelles, pacche sulle spalle e grandi risate. “Pensa che in Italia mi prendono in giro perché non saprei parlare la lingua”, gli ha sorriso Giorgetti, in uno dei primi colloqui, con un inglese che è in effetti perfettibile. “Your English is perfect”, lo ha tranquillizzato Lindner. 

 

 
Forse perché percepito come altro dallo scimunismo dilagante della Lega, forse perché ogni volta ci si illude di poterlo utilizzare come gancio per convincere Salvini, come detonatore di processi politici altrimenti impensabili: sta di fatto che i migliori estimatori di Giorgetti sono spesso i suoi nemici. Lui quasi sempre si schermisce (“Ma guardate che non è che se io gli dico una cosa, allora Matteo la fa. Anzi, spesso succede che lui si accorge da sé di averne combinata qualcuna delle sue, e poi viene da me a chiedermi come poter sistemare le cose”); l’altro, cioè il presunto tontolone, la cosa la soffre non poco. E non perché si senta davvero sotto tutela, ché in fondo rientra nella divisione dei ruoli il fatto che a certi tavoli la Lega sia rappresentata da Giorgetti, come avviene fin dai tempi di Bossi. Il fastidio intimo di Salvini, semmai, sta nel constatare come quasi sempre il Giancarlo passi per quello ragionevole dei due, a dispetto del fatto che, tra i due, quello che nella secessione ci crede davvero, quello che davvero rimpiange il leghismo delle scaturigini, e professa ideali di un conservatorismo più che intransigente sui temi etici, sulla famiglia e tutto il resto, non è Salvini. Il quale sa che se fossero scappate a lui, davanti ai colleghi ministri, certi sbuffi di antimeridionalismo legate alle politiche industriali nel Mezzogiorno, e se fosse stato lui a lasciarsi andare, davanti ai cronisti, a battute di dubbio gusto su amici di partito omosessuali, nessuno gliele avrebbe lasciate passare, a lui, come cedimenti a quella goliardia da stadio o da osteria a cui Giorgetti è molto affezionato. Di certo, se Salvini si fosse presentato al Quirinale, dovendo giurare come membro del governo Draghi, con una mascherina con su il simbolo dell’Insubria, la cosa non sarebbe passata inosservata: e invece Giorgetti da Sergio Mattarella è arrivato così, come a ribadire che il più internescional dei leghisti è anche il più local, il bocconiano di Cazägh.


E insomma il primo a riderne, e ridendone a innervosirsi, della narrazione sul “moderato Giancarlo”, è proprio Salvini, che sa bene quanto decisiva sia stata, nella rinascita della Lega dopo il buio pesto della “notte delle scope”, l’elaborazione teorica di Giorgetti. Fu lui, nel giugno 2012, a spiegare al congresso della Lega lombarda che, “ora che abbiamo esaurito la riserva legata alle intuizioni geniali di Umberto Bossi, sulla cui rendita politica abbiamo vissuto per tanti”, c’era un solo modo per “essere di nuovo pionieri, come Lega e per la Padania”, e cioè sciogliere prima degli altri “il nodo centrale di oggi, che è la sopravvivenza della democrazia rispetto alla soffice, morbida, avvolgente dittatura finanziaria”. A Parma, nel maggio del 2017, la mozione Giorgetti al Congresso federale era perfino più radicale di quella di Claudio Borghi: partiva dal presupposto dell’Italexit, proponendo uno smantellamento concordato della zona euro per “tornare quantomeno allo status pre Mastricht” e contemplando “l’alternativa di un negoziato bilaterale tra Italia e Ue ricorrendo alla clausola di rescissione”. A settembre di quell’anno, il prof. Giorgetti spiegava, con tanto di grafici sulla lavagna di Myrta Merlino, negli studi di La7, i vantaggi di un’eventuale uscita dall’euro. Eppure sei mesi dopo, quando toccò cercare una figura di garanzia a cui affidare la macchina di Palazzo Chigi nel più situazionista dei governi possibili, tutti invocarono lui. E’ un po’ come se, nel perenne gioco delle parti che Salvini e Giorgetti mettono in scena, tra qualche dissapore reale e molti litigi simulati, l’uno debba recitare l’estremismo sbracato per raccattare like, l’altro declami mitezza e continenza. Roberto Calderoli, che sta a metà strada tra i due, ha raccontato che “quello che Giancarlo ha spiegato a Matteo è che spesso per arrivare alla meta bisogna fare la strada lunga”: solo che Calderoli lo ha raccontato ai suoi commilitoni della bergamasca per sedare le loro residue rivendicazioni indipendentiste, per dire insomma che solo stando al governo, anche in governi meno confortevoli di quello attuale, si potrà arrivare all’agognata autonomia. Quindi, anche qui, vai a sapere se nella dottrina di Giorgetti ci sia più genialità imprendibile o semplice tirare a campare.


Forse solo su un tema, il nervosismo è sincero. Perché in politica estera, Giorgetti non ammette scantonamenti dalla fedeltà atlantica. Cosa che, pur nel contesto di un partito smaccatamente filorusso, e sostanzialmente antiamericano già ai tempi di Bossi, gli viene riconosciuta da Washington. A Via Veneto, Lewis Eisenberg, ambasciatore spigoloso durante il governo gialloverde, era solito presentarlo come “The Magician”. Poi, di solito, gli faceva una testa così sulle corbellerie che Salvini e Conte combinavano con Mosca e Pechino, e lui si stringeva nelle spalle: “Vedrò quello che posso fare”. Solo qui, insomma, il giorgettismo accettava di assumere i toni ultimativi del rimprovero: anche se poi, a ogni nuova prodezza del tovarisch Salvini, ogni volta che quello si faceva sbertucciare in mondovisione da un sindaco polacco con la maglietta di Putin, ogni volta che spuntava fuori il Tonino Capuano di turno coi suoi buoni uffici presso l’ambasciata russa, ogni volta che si vagheggiavano nuovi viaggi, nuove figuracce, verso la Piazza Rossa, Giorgetti, molto giorgettianamente, si eclissava. 


Perché Giorgetti è anche questo. Perennemente a disagio nei panni che accetta d’indossare. Sempre altrove, sempre riluttante, sempre apparentemente più virtuoso delle grossolanità che le circostanze, gli accidenti, Salvini, lo costringono a commettere. Ignavo e furbacchione. Una specie di estenuato scrivano Bartleby, che “I would prefer not to, ma se proprio va così, che devo fare?”.
Tolta la geopolitica, però, le tensioni vere, più che tra i due generali, si registrano tra i rispettivi colonnelli. Quelli di Salvini che imputano a Giorgetti un manovrismo occulto (“E certo che vuole Draghi al Quirinale: così a Palazzo Chigi ci va lui”, tanto per dirne una), e quelli di Giorgetti che vanno disponendo trappole qua e là, ormai da più di un anno, e vagheggiano rese dei conti e lunghi coltelli, nell’attesa che il loro condottiero dia il segnale. “Ma figurarsi se lo darà mai”, è la versione di Luca Zaia. Che a lungo, alla vigilia delle politiche di settembre, era stato sondato dai ribelli per organizzare il regicidio. Ma se Massimiliano Fedriga l’ipotesi l’ha pure considerata, il Doge più che altro scuoteva il capo quando gli descrivevano un “Giorgetti esasperato”, che “stavolta è disposto davvero”. Altro che 25 luglio. Al massimo, il 25 settembre: dopo le urne, il nulla. “Giorgetti, tra le sue tante doti, non ha quella della temerarietà. Vedrete che si alzeranno i toni, qualcuno perderà le staffe, poi tutto resterà com’è”, vaticinava Zaia in campagna elettorale.


E in effetti eccoci qui, con Salvini ai Trasporti e Giorgetti all’Economia, e concordia e sorrisi come sempre. E come sempre, però, il racconto di supposti malumori ad accompagnare photo opportunity. Stavolta la scocciatura del segretario starebbe nel fatto che, malgrado il suo stellone da vicepremier, Meloni si confronti troppo direttamente, in via troppo esclusiva, col responsabile di Via XX Settembre. Che però, in effetti, di scelte in autonomia ne prende davvero poche. Specie per quel che riguarda le prerogative più gratificanti che spettano al ministro dell’Economia: le nomine. Il dossier lo gestiscono insieme, anche se i sostenitori del giorgettismo dicono che il loro paladino abbia imparato a indirizzare il segretario sulle soluzioni che lui ritiene preferibili, e quello quasi sempre abbocca. Chissà. Di certo, però, una sintonia di fondo c’è, se è vero che, nella cagnara sollevata da Meloni e Guido Crosetto sullo spoils system, Salvini ha resistito alla tentazione di metterci del suo, e anzi ha imposto il mandato del silenzio a tutti i suoi: “Su queste cose ci pensa Giancarlo, nessuno intervenga”. E per ora pare addirittura che funzioni. Sulla Rai, ad esempio, la strategia concordata è quella del rinvio. E dire che Meloni stava assecondando il furore di alcuni dei suoi, che ben volentieri avrebbero già affidato il machete a Gianpaolo Rossi, pretendendo da Giorgetti, che da capo dal Mef ha l’ultima parola su Viale Mazzini, il siluramento per direttissima di Carlo Fuortes. Giorgetti, va da sé, manco a pensarci. “Vediamo, valutiamo, riflettiamoci”, e via così. Al che Salvini s’è fatto sentire: “Se quelli di FdI vogliono che noi facciamo piazza pulita, allora il nome del nuovo amministratore delegato lo decidono con noi”. E ci sta.


Attendismo, dunque? Un suo predecessore a Via XX Settembre, pronostica un mandato “senza grandi sussulti, nel bene e nel male”, per Giorgetti. “Si è costruito un gabinetto di gente preparata ma attenta per lo più sul piano legislativo, ha esordito rivendicando la prudenza e la cautela come virtù. Non avrà guizzi, e forse neppure aspira ad averne, interessato com’è, più che altro, a non combinare danni”. Per il resto, potrebbe essere assai difficile giudicarlo. Perché Giorgetti è capace di sostenere ogni tesi e il suo contrario, di dissociarsi ribadendo fiducia, di smentire confermando.

  

L’incoerenza suona sempre due volte. Il rapporto privilegiato con la premier Meloni che indispone Salvini. Il dossier delle nomine e il doppio gioco su Rivera. Malizia e insipienza, enigmaticità: declinazioni del “giorgettismo”

  
Ha lanciato l’allarme sulle pensioni col tono di chi è irremovibile: “Solo per l’indicizzazione ai tassi di inflazione, nei prossimi tre anni ci sarà un aggravio di spesa di 50 miliardi”. Poi, siccome Salvini insisteva con Quota 41, lui ha detto che “Quota 41 è una misura che ha un suo senso”. In Cdm ha difeso con forza l’introduzione del limite sul Pos a 60 euro voluta da Meloni. Poi, quando gli è stato fatto notare che la misura configgeva con le raccomandazioni europee, quando Banca d’Italia e la Corte dei conti hanno rimproverato l’incoerenza della misura “con l’obiettivo di contrasto all’evasione fiscale previsto nel Pnrr”, ha suggerito la via della disobbedienza civile. E così, quando il renziano Luigi Marattin, alla Camera, ha provato a coglierlo in contraddizione (“Voi giustificate il limite del contante a 5 mila euro in nome della libertà del cittadino di scegliere come pagare. Ma allora perché, al contempo, mi private di quella libertà, impedendomi di pagare con la carta di credito una cena da 55 euro in un ristorante?”), lui ha replicato, serafico: “Lei, onorevole Marattin, ha la libertà di cambiare ristorante, e le consiglio di farlo. E credo che se tutti quelli che trovano dei ristoratori che si vedono rifiutare il bancomat o la carta di credito facessero così, tutti si doterebbero del Pos”. Primo caso, forse, di un ministro dell’Economia che indice una campagna di boicottaggio popolare contro un provvedimento del ministro dell’Economia. Un controsenso, no? gli è stato chiesto. E lui: “Ma no, ma no, era solo un esempio”. Era il 2 dicembre. Due settimane dopo, la norma sul Pos sarebbe saltata. E Giorgetti, imperturbabile: “Siamo intervenuti per tempo”. Del resto, come poterlo criticare? Era riuscito a essere a favore, parzialmente critico, e contrario alla stessa norma da lui voluta, il tutto nel giro di venti giorni.


Sulla benzina, il canovaccio è stato lo stesso: prima ha rivendicato il mancato rinnovo della riduzione delle accise (“Perché è una misura troppo generalizzata”); poi ha fatto finta di non accorgersi che il primo a invocare un ravvedimento era il suo segretario di partito; quindi ha accettato una mezza correzione in corsa, dunque la correzione della correzione. Sempre restando impassibile. Un po’ Fantomas bonaccione, ogni volta cangiante e ogni volta uguale a sé stesso, un po’ Don Circostanza, l’avvocato descritto da Ignazio Silone, quello che, quando il principe Torlonia vuole deviare a suo vantaggio il corso del ruscello che garantisce acqua al paese di Fontamara, seda la rabbia dei cafoni derubati stabilendo che “tre quarti scorreranno nel nuovo letto del fiume, mentre i tre quarti del rimanente nel vecchio, cosicché ognuno abbia i suoi tre quarti”. 

 

La stima del ministro delle Finanze tedesco. Il fastidio intimo di Salvini nel constatare come quasi sempre Giorgetti passi per quello ragionevole dei due, a dispetto delle sue convinzioni (al Congresso della Lega del  2017  la sua mozione partiva dal presupposto dell’Italexit). La Rai, il Pos, il Mes: la capacità di sostenere ogni tesi e il suo contrario 

  
A Berlino, a inizio novembre, nel suo viaggio d’esordio come ministro dell’Economia, Giorgetti s’è lasciato convincere dal tedesco Lindner a sostenere la candidatura del lussemburghese Pierre Gramegna alla presidenza del Mes. E la lettera di candidatura di Gramegna parlava chiaro: “Il mio primo e principale obiettivo sarà di accompagnare la piena ratifica e la conseguente attuazione del pacchetto di riforma del Mes”. Dunque l’Italia era pronta ad approvare definitivamente il nuovo trattato del Fondo salva stati? Non proprio. Prima infatti, Giorgetti disse che “attendiamo le deliberazioni della Corte di Karlsruhe” – il che doveva essere una nuova, estrema versione del sovranismo italico: decidere sulla base dei giudici costituzionali tedeschi. Poi, precisò meglio: “Sono in linea col mio predecessore”. Solo che Daniele Franco, non fosse stato per l’opposizione feroce della Lega, la ratifica del Mes l’avrebbe portata eccome, in Cdm. Quindi, durante un’interrogazione a Montecitorio a metà dicembre, si lanciò in una filippica che non ammetteva ripensamenti: contro l’inadeguatezza del Fondo salva stati, il suo anacronismo, le sue storture. Dunque non ratifichiamo, ministro? Be’, non proprio. “Emerge con chiarezza la necessità che la decisione di procedere o meno alla ratifica del trattato sia preceduta da un adeguato e ampio dibattito in Parlamento”. Ah, ecco. Sennonché la ratifica, prima di essere affrontata in un adeguato e ampio dibattito in Parlamento, va licenziata dal governo: e, manco a farlo apposta, il ministro proponente deve essere quello dell’Economia.  Che ora, in effetti, lascia filtrare, in forma ufficiosa, la seguente versione: “Non abbiamo altra scelta che ratificare”. Giorgettismo in purezza: a metà tra l’Asa Nisi Masa di Fellini e la terapia tapioco di Tognazzi, una roba in cui ciascuno può cercarvi chissà che significato profondo e impenetrabile, oppure il nulla.


E forse, allora, la sua presenza al ministero dell’Economia è provvidenziale. Nel senso che è fatale che un governo che, per sopravvivere, deve confutare la sua stessa natura, negare i presupposti su cui si fonda la sua propaganda sovranista, abbia lui come regista silenzioso, come eminenza ligia. Dopo il Mes toccherà ai balneari; dopo i balneari alle pensioni, e poi chissà. Don Circostanza, dopo aver diviso “a tre quarti, in parti uguali”, l’acqua dei fontamaresi in favore dei Torlonia, si ritrovò a dover gestire le loro proteste perché il principe pretendeva l’usufrutto sull’acqua per cinquant’anni. “Propongo di ridurre il termine a soli dieci lustri”, suggerì lui. E quelli, disgraziati, applaudirono. 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.