Un estratto

Salvare il Pd da se stesso. Tre elementi per il futuro della sinistra

Michele Salvati e Norberto Dilmore

Coniugare in modo coerente crescita economica, transizione ambientale e riduzione delle diseguaglianze. I programmi radicali vengono soltanto percepiti come destabilizzanti e pericolosi

Pubblichiamo l’estratto di un intervento di Michele Salvati e Norberto Dilmore uscito sull’ultimo numero del Mulino


 

"Du passé faisons table rase”, “Facciamo tavola rasa del passato”: così cantano i compagni francesi nella loro versione dell’Internazionale. Ed è con questo spirito che alcuni componenti della commissione degli “87 saggi” si sono scagliati contro il Manifesto dei Valori del Pd alla prima riunione convocata per il suo aggiornamento. “Documento … brutto, bolso, illeggibile, fatto di parole d’ordine, burocratese”, “impregnato di neoliberismo e antipolitica”, con un’“impostazione ordoliberista, non adeguata ai tempi”, “manifesto di un partito a vocazione centrista, blairiano” sono state alcune delle critiche indirizzate al documento redatto nel 2007. Queste critiche hanno inevitabilmente scatenato la reazione di quei componenti della Commissione che volevano sì aggiornare, ma non riscrivere, il Manifesto. (…)

 

La sinistra del partito pensa che per riguadagnare il terreno perduto si debba puntare tutto sulla “triade” redistribuzione, investimenti nella green economy e politica industriale (più o meno europea). Dopodiché l’intendance suivra e la triade si porterà appresso il resto dell’economia italiana. Al fine di rafforzarla si introdurranno riforme (scuola, università, sanità, pensioni, mercato del lavoro, ecc.) guidate principalmente da considerazioni redistributive ed egualitarie: secondo la sinistra, esse condurranno alla creazione di circoli virtuosi che dovrebbero portare l’Italia fuori dal ristagno cronico in cui si trova. Queste poche righe sono una semplificazione di posizioni certo più articolate. Tuttavia, pensiamo che identifichino abbastanza bene le priorità economiche del Pd così come espresse da alcune personalità di spicco della sinistra del partito.

 

Comprensibilmente esse sottolineano la radicalità dell’approccio: solo una cesura netta col passato, una table rase, può risollevare le sorti del Pd. E’ per questa ragione che il Partito democratico dovrebbe essere di parte e, almeno fino a quando è all’opposizione, non dovrebbe farsi carico di tutti i problemi del paese. A nostro avviso, un tale approccio ha scarse probabilità di successo e molto rapidamente si scontrerebbe contro ostacoli insormontabili. L’Italia non cresce da più di vent’anni, mentre la produttività totale ristagna dagli anni 70. Il reddito pro-capite attuale è inferiore a quello del 2000, abbiamo una delle burocrazie più inefficienti e clientelari tra i paesi sviluppati e il nostro assetto istituzionale è uno dei più complessi e confusi.

 

La spina dorsale dell’economia italiana è costituita da 2000 aziende altamente produttive e questa è una base troppo piccola per rilanciare il dinamismo economico di un paese con 60 milioni di abitanti. L’Italia è bloccata in una palude di problemi strutturali per affrontare i quali sono necessarie riforme profonde. In alcuni casi essi richiedono più mercato e concorrenza per smantellare un capitalismo relazionale che blocca la crescita del paese, mentre in altri occorre più stato, ad esempio per accelerare la transizione digitale e ambientale. Più stato però richiede in parallelo l’adozione di criteri di merito e produttività vincolanti, se si vuole evitare che più stato si traduca in più clientelismo ed inefficienza. (…)

 

Esiste anche una versione “opportunistica” dell’approccio propugnato dalla sinistra del partito, una versione spesso giustificata da una forte nostalgia di un passato che non può ritornare. L’adozione di una piattaforma programmatica radicale servirebbe a rafforzare l’identità del Pd, che tornerebbe ad essere una scelta politica attraente per i ceti sociali più sfavoriti e si tradurrebbe in un’avanzata elettorale. Una volta tornato al governo, però, il Pd adotterebbe un approccio più pragmatico e realista. Questa è stata per esempio la strategia di Fratelli d’Italia: dopo essersi opposti con forza e sulla base di argomenti di parte (nel caso, etno-nazionalisti e antieuropeisti) al governo Draghi, una volta vinte le elezioni essi hanno notevolmente annacquato la propria agenda e hanno mantenuto solo una piccola parte delle promesse fatte, consapevoli che se avessero fatto altrimenti sarebbero durati ben poco al governo. 

 

La versione opportunistica ha una sua logica, soprattutto per un partito indebolito, che fa fatica a definire la propria identità. Tuttavia, vi sono tre ragioni che sconsigliano l’adozione della strategia che essa implica. La prima si applica a qualsiasi schieramento politico: se il programma è un programma di parte, senza una visione generale del paese, quest’assenza progettuale si paga al momento dell’accessione al governo. L’esempio più evidente è proprio quello di Fratelli d’Italia: non avendo riflettuto seriamente su come ridare dinamismo e coesione ad un paese che non cresce, FdI ha dovuto far proprio il programma del governo Draghi, utilizzando i pochi margini di manovra disponibili per soddisfare alcuni degli interessi corporativi del proprio blocco sociale. Se questo da un lato ha evitato il peggio, dall’altra parte non ha certo creato le condizioni per porre il paese sui binari che possono farlo uscire dal lungo ristagno in cui si trova. Così facendo, si perde tempo e si sprecano i pochi margini d’azione disponibili, mentre il tempo stringe.

 

La seconda ragione riguarda invece il centro-sinistra in generale. Nel centro-destra e a destra sono possibili situazioni in cui programmi radicali ottengano l’appoggio di una parte dell’elettorato, sostanzialmente perché non vengono considerati come un rischio grave per l’economia e per i diritti di proprietà. Lo stesso non vale nel centro-sinistra e a sinistra, dove programmi radicali di tassazione e redistribuzione, accoppiati con politiche dirigiste, vengono percepiti come destabilizzanti e pericolosi, in particolare se la fiducia nello stato è limitata e l’efficienza della pubblica amministrazione è bassa. I due principali esperimenti effettuati con programmi fortemente radicali (Corbyn in Gran Bretagna e Mélenchon in Francia) hanno solo prodotto sconfitte elettorali. Laddove i partiti socialdemocratici e di centro-sinistra riescono a vincere, lo fanno sulla base di programmi che coniugano o cercano di coniugare crescita economica, riduzione delle diseguaglianze e protezione dell’ambiente. È stato il caso della Germania, della Spagna, del Portogallo della Danimarca e forse, in un futuro non lontano, lo sarà anche per la Gran Bretagna.

 

La terza ragione riguarda il Pd e, più in generale, il centrosinistra del nostro paese: riguarda il loro recente passato e come sono percepiti dagli elettori. Non c’è dubbio che nei suoi quindici anni di esistenza il Pd sia stato percepito da molti come un partito pompiere, che ha indirizzato il suo contributo politico e la sua forza elettorale a sostegno di politiche volte ad evitare il peggio per il paese, ciò che è avvenuto sia ai tempi della crisi del debito sovrano che ai tempi della pandemia. D’altra parte, negli anni in cui è stato al governo, per il fatto di non possedere maggioranze solide ma anche per un difetto di elaborazione teorica, il Pd si è dimostrato molto meno efficace nel perseguire una propria agenda su temi cruciali quali la transizione ecologica, la riduzione delle diseguaglianze e la modernizzazione dello stato, ed è su questi che dovrebbe concentrare il suo programma. (…)

 

Se il Pd vuole restare il partito egemonico del centro-sinistra esso deve essere capace di coniugare in modo coerente nel suo programma crescita economica, transizione ambientale e riduzione delle diseguaglianze e di dotarsi di una narrativa in grado di legare in modo convincente questi tre elementi. Per essere credibile, deve inoltre impegnarsi a farli progredire in parallelo, presentando misure simbolo da adottarsi appena arrivati al governo per dare concretezza al programma stesso. Scorciatoie identitarie di altro tipo possono forse pagare nel breve periodo, ma difficilmente possono tradursi nella creazione di un blocco elettorale vincente. Per fronteggiare un governo di destra-centro incapace di rimettere il paese sui binari di una crescita stabile, sostenibile e inclusiva, la via da seguire è mostrare che un tale modello di crescita è possibile anche in Italia e che c’è una forza politica determinata a perseguirlo con proposte concrete. Ma questa forza deve anche essere finalmente capace di risolvere i suoi dannosi conflitti interni e presentarsi con un/una leader e un programma di riforme adeguato alla gravità della situazione economica e sociale del nostro paese.

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