Dopo il Mes, tocca al Ceta. Meloni chiamata a rimangiarsi un'altra dose di sovranismo

Valerio Valentini

La Germania ratifica il trattato di scambio tra Ue e Canada. L’Italia, rimasta sola insieme ai paesi di Visegràd, adesso che fa? FdI l'ha sempre condannato, ma i dati dicono che l'export italiano oltreoceano è cresciuto enormemente

Siccome il sovranismo di Fratelli d’Italia s’invera nella subalternità al diritto tedesco, per cui prima la Germania decide se approvare oppure no i trattati internazionali, e poi Palazzo Chigi patriotticamente s’adegua, forse, la giornata di oggi va segnata in rosso, nel calendario tricolore di Giorgia Meloni: perché è il giorno in cui il Bundesrat ratifica in via definitiva il Ceta, il trattato di libero scambio tra l’Ue e il Canada. Si spera allora che anche la premier, ansiosa d’altronde di “varare politiche di friendshoring”, provveda a breve. Rimangiandosi, anche qui, anni di scalcagnata propaganda.

E’ una crociata, quella di Meloni contro il Ceta, che risale al 2017, l’anno dell’approvazione in via provvisoria del trattato da parte dell’Ue. Nel giugno di quell’anno, arrivò perfino a mettere in dubbio la sopravvivenza della coalizione: “Quando dico che il futuro dell’alleanza di centrodestra si costruisce ripartendo dai contenuti intendo l’esatto opposto di quello che è avvenuto oggi in commissione Esteri al Senato: Forza Italia ha votato col Pd il via libera al Ceta”. Che ovviamente, con quell’eloquio sempre così calibrato, la leader di FdI definiva così: “L’ennesima marchetta della Ue alle grandi multinazionali”. Di lì, la sentenza: “Chi vota la ratifica di una schifezza che massacra il nostro ‘Made in’ non può essere alleato di Fratelli d’Italia”.

Colse nel segno, Meloni. Perché con l’avvento del contismo gialloverde, il Ceta venne messo al bando. Corrispondenza di sensi populisti, che portò il partito della Fiamma, rimasto fuori dal “governo del cambiamento”, a offrire comunque il proprio sostegno alla maggioranza grilloleghista: “FdI dice no al Ceta e sì alla difesa del Made in Italy. Bene il ministro Centinaio sul no alla ratifica del trattato di libero scambio Ue-Canada che penalizza il nostro settore agroalimentare. I nostri voti in Parlamento ci sono”.

L’armamentario retorico era sempre quello: le regole troppo lasche sul diritto d’autore in Canada, gli standard  qualitativi troppo bassi sul settore enogastronomico, la concorrenza sleale, la morte delle Dop italiane, e insomma tutto un rosario di doléances  per il povero produttore di burrata di Andria e per l’allevatore di Fassona del Canavese condannati dalla perfida Bruxelles a soccombere sotto i colpi dei formaggi e della carne geneticamente modificati dell’Ontario. Ovviamente, è accaduto il contrario. E infatti dal 2016, ultimo anno prima che il Ceta entrasse in vigore in via transitoria nelle sue parti fondamentali a seguito del via libera da parte del Parlamento europeo, fino a oggi, i dati forniti dalla Commissione europea segnalano lo straordinario effetto che l’accordo ha avuto sul nostro export, cresciuto del 36 per cento in un lustro, raggiungendo i 7 miliardi nel 2021. Per non dire degli investimenti bilaterali italiani in Canada, quasi triplicati e arrivati a 3,8 miliardi nel 2021, e di quelli canadesi in Italia, saliti del 185 per cento fino a raggiungere la cifra di 1,1 miliardi.

Insomma, l’aritmetica non lascia spazio a dubbi, sulla convenienza del Ceta. Ma  non bastasse l’algida schiettezza dei numeri, c’è ora anche la logica della politica a suggerire di liquidare la propaganda protezionistica cara ai patrioti. Perché è proprio la premier, oggi, a insistere sulla necessità di rafforzare, a seguito del Covid e della guerra in Ucraina, l’interscambio commerciale coi paesi alleati. “Bisogna partire da catene nazionali dove è possibile; catene europee dove non è possibile averle nazionali; friendshoring, cioè paesi alleati, quando non è possibile averle europee”. Che è, appunto, la logica alla base di trattati di libero scambio come il Ceta, che potenzia i legami tra l’Ue e un paese membro del G7 e della Nato, o del Ttip, volto a intensificare i commerci e la collaborazione tra Europa e Stati uniti. E anche contro questo, manco a dirlo, Meloni in passato s’è scagliata con indomita temerarietà: “E’ come il Fiscal compact, lo si approva in silenzio per poi accorgersi che non funziona. Darà il colpo di grazia all’Italia e alla nostra dignità”. Ma sul Ttip molto bisognerà ancora lavorare, per definire i dettagli dell’accordo.

Quanto al Ceta, invece, l’Italia è rimasta ora sola tra i grandi paesi fondatori dell’Ue nel novero di chi non ha ratificato il trattato in nessuno dei rami del Parlamento, insieme a Grecia, Ungheria, Polonia, Slovenia e Bulgaria. Una Visegràd allargata, insomma. La Francia ha già approvato il Ceta all’Assemblea nazionale. La Germania, da oggi, in entrambe le Camere. E siccome il sovranismo italico, come dimostra la faccenda del Mes, attende che Berlino decida per poi adeguarsi (o quantomeno far finta), magari c’è speranza che anche sul Ceta qualcosa si muova. Del resto il Made in Italy ormai ha un ministero dedicato guidato dal patriota Adolfo Urso; e il solco tracciato dall’aratro meloniano a tutela della nostra “sovranità alimentare” è difeso dalla spada di Francesco Lollobrigida. Quale momento più propizio di questo?

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.