Eugenia Roccella (Ansa)

La lettera

Pari opportunità al femminismo. Senza retorica. Ci scrive Eugenia Roccella

Eugenia Roccella

I movimenti e le rivendicazioni non hanno saputo sottrarsi alla logica di schieramento, sono rimasti appiccicati a speranze di una sinistra che non c’è. La stessa sinistra che, a parte qualche eccezione, ha inserito le donne come una rotellina nell’ingranaggio dei nuovi diritti. L'intervento del ministro per le Pari opportunità

Al direttore - La lettera di Alessandra Bocchetti oltre a essere un messaggio alla ministra è uno scriversi tra donne, riconoscersi nella distanza. Ma quanto è grande questa distanza? Siamo noi che dobbiamo deciderlo, scegliendo di rifugiarci in schemi ideologici irrigiditi, o di aprire qualche spazio di diversa libertà. Ha ragione Bocchetti, noi femministe non abbiamo mai chiesto un ministero per le pari opportunità, però è stato istituito dopo che le donne hanno riempito le piazze e abbattuto muri legislativi e culturali, ribadendo di esserci, di non essere categoria né minoranza, ma semplicemente metà dell’umanità. Una metà che vuole essere libera, non come lo sono gli uomini, ma come sanno esserlo le donne. Quindi non libera dal proprio corpo, ma portando nello spazio pubblico tutte noi stesse, con il nostro corpo che genera e che non può essere controllato.

 

 

Lo sanno e lo pretendono, in questo momento, le donne iraniane, ma lo sa e lo pretende ognuna di noi. Noi non vogliamo essere “come gli uomini” – anche su questo sono d’accordo con Bocchetti – questa non è la nostra massima aspirazione, l’obiettivo supremo e ambizioso che ci poniamo. Il femminismo che Bocchetti definisce “di stato” prevede la parità senza differenza, la rincorsa del maschio, la negazione del corpo che genera. E’ l’emancipazionismo eretto a bandiera femminista. Ma se io sono stata attaccata per aver detto che l’aborto non è un diritto, è anche perché il femminismo non ha saputo sottrarsi alla logica di schieramento, è rimasto appiccicato a speranze di una sinistra che non c’è (vedi Ricolfi). Una sinistra che, a parte qualche eccezione, ha inserito le donne come una rotellina nell’ingranaggio dei nuovi diritti. 

 

L’aborto esiste da secoli. Le leggi possono renderlo visibile, legittimarlo, ma non possono istituirlo né cancellarlo: è un fenomeno che eccede il diritto, esula dal suo territorio, perché ne esula la maternità. Il soggetto della cittadinanza è l’individuo. Individuo vuol dire che non si divide, e indica l’elemento di soggettività irriducibile dell’umano. Ma la donna, con la gravidanza e il parto, è due in uno, vita che contiene un’altra vita. Questa compresenza di soggetti e di corpi è profondamente estranea al pensiero politico occidentale, impensabile con le sue categorie: le donne non sono “individue”. C’è dunque una mancanza iniziale nella nostra cultura, l’incapacità di concepire la maternità, che resta un’anomalia della cittadinanza, di eccezione alla regola, dove la regola è il corpo che non si riproduce. Non si può capire l’aborto (e infatti lo si riduce a diritto) se non all’interno della specificità del materno.

 

Oggi le donne sono sotto un attacco del vecchio e nuovo patriarcato che si incrociano, si sovrappongono e si alleano. I vecchi metodi con cui si controllava il corpo femminile sono cambiati, grazie alle nuove tecnologie della riproduzione, che hanno aperto al mercato del corpo femminile, contrattualizzando le relazioni intorno al materno. Forse è vero che “la guerra delle donne non fa più vivi”, che l’inverno demografico è l’inverno del nostro scontento. Ma vorrei dire alle giovani donne, riprendiamoci la maternità, come libertà e non come destino, e proviamo a metterla al centro. Anch’io credo nella forza delle donne. Questa forza ha oggi come avversario nuove utopie. Le utopie della perfettibilità sono state sempre violente, perché non accettano il limite, l’imperfezione che è il sale della condizione umana. Oggi il miraggio della perfettibilità si è spostato dal terreno sociale a quello antropologico, grazie alle biotecnologie e alle nuove tecniche di procreazione in laboratorio, e si accompagna alla cultura del consumo, a un individualismo che fa smarrire la centralità della persona.

 

Solo le donne possono opporre a questa visione un’utopia diversa. Noi donne abbiamo sempre avuto cura dell’imperfezione, della mancanza, coltivando la relazione. Giorno dopo giorno abbiamo messo ordine, creando il nuovo con quello che avevamo a disposizione, rendendo abitabile lo spazio che non lo era. In questa attività le donne hanno riversato, e ancora riversano, energia, fantasia, e una tensione verso una perfettibilità precaria destinata a durare poco, per essere continuamente ricreata. Dietro la ripetitività dei gesti del lavoro di cura c’è una forza inesplorata che ha mandato avanti il mondo. È un’utopia minimalista, che non prefigura un mondo felice su modelli astratti, ma cerca di creare le condizioni perché la felicità e il benessere possano nascere e svilupparsi, si muove sui bisogni reali delle persone reali.  L’utopia femminile si pensa dentro un sistema di relazione, ed è questo il motivo per cui è adatta alla complessità, quindi al futuro. Questa utopia della cura possiamo provare a farla vivere nello spazio pubblico, ma dobbiamo attraversare la politica, dobbiamo farla nostra. Alessandra Bocchetti ha distinto una volta tra la politica per le donne e quella delle donne: proverò a fare quest’ultima, sapendo di avere a capo del governo una premier che ha dichiarato di essere brava non come un uomo, ma come una donna. 

Eugenia Roccella, ministro delle Pari opportunità

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