Giorgia Meloni (Ansa)

culture war e ideologia

“Io sono Giorgia e sono il presidente”. Le femministe in tilt

Andrea Minuz

Il dibattito s’infiamma sulle incertezze lessicali. E con la facilità con cui si difendeva la candidatura della “moglie di Fratoianni” in quanto persona di gran spessore, mica “moglie di”, si glissa ora sulla donna che sta lì senza la spinta di un uomo. Qualche mese fa, coi comizi urlati era più facile. Anche per Boldrini e per la Rai

Di Giorgia Meloni colpisce in questi primi giorni di legislatura la mutevolezza delle forme. A volte donna. A volte non abbastanza donna. Biologicamente femmina, sempre culturalmente maschio, insomma “diversamente donna”, in missione, sotto copertura, per conto del patriarcato. E’ una creatura mitologica. Un’aporia ideologica. Un’illusione ottica che sta facendo impazzire le femministe: è donna, è premier, com’è possibile che non sia dei nostri (a sinistra va forte l’analisi della sconfitta, qui si porta molto anche la rimozione della vittoria)? Qualche mese fa era tutto più facile. Coi comizi urlati, la sguaiataggine, le tirate à la Vox della Giorgia in versione campagna elettorale, e tutto quell’armamentario che ora sembra sepolto in un passato lontano (chi se lo ricorda il video dello stupro?). Anche su Twitter tutto si è fatto più complicato.

Questa donna premier è vero avanzamento o pericoloso arretramento? E davanti alla diretta tv per il rito della campanella, un tragico dilemma: è lecito per una donna (di sinistra, emancipata, femminista) emozionarsi per Giorgia che sfila davanti al picchetto d’onore, mette in riga i soldatini, entra a Palazzo Chigi, quindi giura davanti alla figlia trepidante, come nella saga di una principessa Disney? O non sarà casomai un imbarazzante cedimento, una “sconfitta per tutte noi”, una crepa nella coscienza civile, un pauroso fiancheggiamento?


Ma allora il “first gentleman”, Andrea Giambruno, immortalato con la bimba mentre s’insedia, non è forse il simbolo che tutti aspettavamo? Non se ne esce. In mancanza di provvedimenti, leggi, proclami, fatti concreti, tutto un intensissimo spreco di energie per smontare ogni gesto, ogni sguardo, ogni segno. Il vestito troppo scuro. Il biondo eccessivo. L’automobile non italianissima. Le scarpe senza tacco (ma con le décolleté sarebbe stato subito “corpo delle donne”). Come per ogni culture war di questi tempi, il dibattito s’infiamma naturalmente sulle incertezze lessicali. Con la facilità con cui si difendeva la candidatura della “moglie di Fratoianni” in quanto persona di valore e gran spessore, mica “moglie di”, si glissa ora sulla donna che sta lì senza la spinta di un uomo. Giorgia casomai la spinge direttamente tutto il patriarcato per farle fare il gran balzo, tirando così il più infimo degli scherzi alla storia della sinistra e del femminismo italiani.

 

Preferendo “il” presidente a “la” presidente rivela di essere ciò che è sempre stata. Altro che prima donna premier! E’ una scelta ideologica. E’ una provocazione. O magari chissà, è solo per non rovinare il claim (“sono una donna, sono una madre e un presidente”). Nel dubbio i sindacati Rai salgono sulle barricate: “Nessun collega può essere obbligato a usare il maschile, i giornalisti Rai sono tenuti a declinare al femminile i nomi” (possibili soluzioni: su Rai 3 “la presidente”, su Rai 2 “la premier”, su Rai 1 si presenta da sola, su Rete 4, “il presidente”,  su La7, “Giorgia”, specie a “Otto e mezzo”, dove ci si chiama sempre per nome, “scusami Lilli, lasciami finire”). Il paese di linguisti e filologi reclama l’autorità della Treccani e della Crusca. E siccome due indizi fanno una prova, Laura Boldrini segnala anche la dimenticanza di “sorelle” nel nome del primo partito di governo.

 

Ma l’Accademia della Crusca traccheggia. Prende tempo. Non si schiera. Forse già si riposiziona. Insomma, lascia fare (come con l’annosa querelle su “qual è” con l’apostrofo o senza: scrivetelo come vi pare). Ci si richiama allora alle “raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”, a cura di Alma Sabatini, testo redatto alla fine degli anni Ottanta proprio per la presidenza del Consiglio. E poi su su, fino al potere totalitario della lingua, a Orwell, Pasolini o all’immancabile Roland Barthes, quando al Collège de France affermava senza mezzi termini che “la lingua è fascista” (in anni in cui fascista era un po’ tutto). La provocazione può dirsi dunque riuscitissima. Mentre Giorgia lancia la sua transizione da donna a premier la si vorrebbe ancorare al dato biologico e relativo articolo femminile?  Ennò. Non è questo che si insegna oggi. E non sarà certo lei a doverci spiegare quanto la lingua e la realtà debbano accordarsi al nostro desiderio. A ciò che sentiamo di essere, prima che a ciò che siamo. Bisognerà accettare insomma che anziché scrivere il primo pezzo sull’Espresso con la schwa, Giorgia Meloni ha ritenuto fosse più dirompente diventare il primo premier donna della storia d’Italia, e farsi chiamare “il presidente”.
 

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