Foto di Cecilia Fabiano, via LaPresse 

l'insostituibile

“Berlusconi? Vuole sfregiare Meloni”. Ricognizione sul Cav. psico-politico

Salvatore Merlo

Negli uffici di Fratelli d’Italia, il Cav. scherza (ma forse nemmeno tanto) così: “Allora, se vi serve un altro leader qui dentro sappiate che ci sono io”. L'ex capo del centrodestra non vuole successori

Non sente bene da un orecchio, parla un po’ a ruota libera, si confonde sui collegi uninominali, racconta sempre la stessa barzelletta su lui e il Papa in aereo, comincia forse ad assomigliare al personaggio di quel film in cui Michele Placido interpreta un uomo politico che divenuto anziano non riesce più a dire le bugie e dunque dice tutto quello che pensa, eppure... “guardate che Berlusconi era così anche vent’anni fa. La resa scenica è logorata dagli anni, certo, ma l’animus pugnandi è lucido. Silvio a volte fa cose irrazionali che dipendono da un’esorbitante personalizzazione dei conflitti. E ora gli interessa solo una cosa, credetemi e non è politica: lui vuole sfregiare Giorgia Meloni, l’abusiva”.

 

Dice così Fabrizio Cicchitto che è stato il  capogruppo del Cavaliere negli anni napoleonici e disastrosi del Pdl, culminati nella notissima e furibonda lite con Gianfranco Fini, forse il climax ascendente dell’irrazionalità di questo Titano ribelle, Silvio Berlusconi appunto, mezzo Prometeo e mezzo Anticristo, anomalo perché in conflitto d’interessi, in conflitto d’interessi perché anomalo, chiamato dal destino a imporsi, a distruggere, a dilaniare anche se stesso in una battaglia e in una sofferenza sovrumane: “Dopo di me il diluvio”. Casini, Fini, Alfano, Tremonti, Scelli, Bertolaso, Brambilla, Samorì, Fiori, Martinelli (quello di Grom), Toti, Parisi... per venticinque anni Berlusconi ha lasciato intravedere ai suoi smaniosi alleati e cortigiani la possibilità di consegnare lo scettro a qualcuno di loro, indicando ora l’uno, ora l’altro, ora tutti e ora nessuno.

 

Insomma ha divorato più delfini lui di qualsiasi altro pescecane, annichilendo persone anche per un nonnulla, e forse soltanto perché, come dice Giuliano Urbani, che Forza Italia la fondò con il Cavaliere nel 1994, “per Silvio è inconcepibile che qualcun altro possa fare il leader e il presidente del Consiglio del centrodestra al posto suo. Tanto meno la Meloni che sembra fatta costituzionalmente per non piacergli. Piccola, donna, giovane e anche un po’ ‘fascistina’ come disse Fedele Confalonieri”. E Salvini allora? “Salvini non è mai stato leader di niente, ha governato con i grillini  e non è mai stato in predicato di diventare presidente del Consiglio. La Meloni invece lo manda ai matti. Letteralmente. È proprio così, io lo conosco Berlusconi”.

 

E allora eccolo il Cavaliere, che giovedì scorso aveva cercato di ritardare l’elezione di Ignazio La Russa in Senato, a sfregio, come si dice. Ed eccolo ancora, non soltanto imprevedibile ma anche un po’ sadico,  mentre si fa fotografare con i famosi appunti su Meloni “supponente, prepotente, arrogante e offensiva”. Eccolo infine, il giorno dopo, spinto quasi contro la sua volontà da Gianni Letta, dalla figlia Marina e da Pier Silvio ad andare in Via della Scrofa, la sede di Fratelli d’Italia. Canossa. Una pace durata lo spazio di una sera. Fino allo spettacolo pirotecnico e insistito di martedì, di nuovo in Senato, sul compagno della Meloni, sulla Russia, sull’amico Putin e sull’Ucraina. Un teatro dell’autocombustione. Una missione kamikaze. “Come può Antonio Tajani fare adesso il ministro degli Esteri, mentre il suo capo dice di essere amico di Putin?”, dice Carlo Calenda. Così, nei capannelli, tra i senatori, circolano le suggestione più incredibili. “Berlusconi sta boicottando il suo Tajani perché quello ha un rapporto pacifico con Meloni”. È inverosimile, eppure tutto sembra possibile. È il Caimano, bellezza. Zoppica, ma è ancora vivo.

 

E insomma, Lui. Lui. Lui. E ancora Lui. Anche quando non è più Lui. Anche quando cammina a fatica e non si ricorda i nomi delle persone che incontra. Silvio Berlusconi, dunque, che appena entrato negli uffici di Fratelli d’Italia, lunedì, scherzava (ma forse nemmeno tanto) così con i ragazzi della Meloni: “Allora, se vi serve un altro leader qui dentro sappiate che ci sono io”. Gigante anomalo, dottore di amoralismo politico come nel Medioevo si poteva esserlo in teologia, l’imprenditore rampante che riusciva a vendere gli appartamenti ancora prima di averli costruiti, quello che non si era mai fatto spaventare da nessun affare, quello che ha sempre vissuto di avventure, azzardi, percorsi obliqui, il creatore di Forza Italia e del Pdl, ma anche il distruttore di Forza Italia e del Pdl, l’amanuense di se stesso, l’uomo indescrivibile, indefinibile, che attorno al proprio carisma ha fatto vorticosamente roteare la Seconda Repubblica e la follia di un paese intero.

 

Lui che una volta esaurito il carisma, come nella canzone dei Baustelle cantata da Irene Grandi: “Bruci la città e perisca nel terrore”. Qualcuno davvero poteva pensare che Lui avrebbe accettato facilmente quella “bambina”, Giorgia, una che senza aver vinto quanto lui, nemmeno uno scudetto del Milan,  ora pretende pure di dargli degli ordini? Assolutamente no. “È incorreggibile, incorreggibile, incorreggibile”, ripete Pier Ferdinando Casini mentre parla con Stefania Craxi, seduto su una poltroncina in ramage assortiti del Senato, lui che del Cavaliere fu l’alleato e l’alterno delfino, periodicamente incoronato e deposto. Si riferisce a Berlusconi, senatore Casini? “Lasciamo perdere, voglio parlare soltanto di cose allegre”.

 

A marzo del 2009, quando si doveva tenere il congresso del Pdl, venne chiesto a Italo Bocchino cosa si dovesse fare per candidarsi alla presidenza del nuovo partito contro Berlusconi. E l’ex vicecapogruppo alla Camera, allora molto influente, rispose: “Se qualcuno volesse candidarsi, immagino dovrebbe raccogliere le firme per farsi votare dell’assise. Ma qualsiasi candidatura che non sia quella di Berlusconi appartiene alla fantapolitica”. E qualora l’imponderabile accadesse, quante firme sarebbero necessarie per candidarsi? “Questo non lo so”, rispondeva Bocchino, allargando le braccia. Praticamente non lo sapeva nessuno. L’eventualità non era neanche prevista dallo statuto (“in effetti sulle norme per ulteriori candidature non ci siamo soffermati molto“, ammetteva Ignazio La Russa, coordinatore nazionale del Pdl).

 

Così Gaetano Quagliariello, allora vicecapogruppo al Senato, ci scherzava sopra: “Una candidatura alternativa sarebbe una corsa ostacoli. Denis Verdini ha già preparato una batteria di arcieri che abbattono il temerario. Sopravvivesse, poi scatterebbe anche una lapidazione sul posto”. Ecco. Ed era ancora il periodo in cui Berlusconi ogni tanto s’aggirava, come il lama Norbu nel film di Bertolucci, alla ricerca del piccolo Buddha, cioè della improbabile reincarnazione di se stesso, l’erede, il nuovo leader. Angelino Alfano, d’altra parte, per chi lo ricorda, fu innalzato infinite volte, e infinite volte rovesciato. 14 aprile 2011: “Il mio successore potrebbe essere Alfano”. Il 5 maggio: “Mai detto che Alfano è il mio successore”. Il 9 luglio: “Il candidato premier del centrodestra sarà Alfano”. In continuazione, Angelino annegato e resuscitato. Fino alla sentenza del Giornale: “Berlusconi deluso da Alfano”. Cacciato pure lui, quindi. Malgrado soltanto con Alfano l’infinita e dunque impossibile successione era a un certo punto diventata un fatto che il Cavaliere viveva senza gelosie, consegnandosi talvolta, è vero, al dubbio (“è un oggetto misterioso”), ma pur riconoscendo per primo a se stesso – e convincendo con sollievo anche il proprio “io” – che quella di Alfano era una designazione, la successione simbolica del sangue, e dunque, in definitiva, una rassicurante reiterazione di sé.

 

“Ma la verità è sempre stata un’altra”, dice Fabrizio Cicchitto, che queste faccende le ha viste e vissute tutte. “La verità è che Silvio non sopporta nessuno che lontanamente possa essere il suo successore, nemmeno con il suo sostegno. Ed è incapace di accettare l’idea che gli anni siano passati, e che una storia sia finita”. E si ritorna così a Giorgia Meloni, una donna che la leadership del centrodestra e la presidenza del Consiglio se l’è prese con i voti, i suoi, il triplo di quelli del Cavaliere e di Salvini. Strappando scettro e corona attraverso la politica. Non come si riceve il dono grazioso di un despota, ma come si scippa un tozzo di pane a un estraneo.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.