Foto di Mauro Scrobogna, via LaPresse 

La direzione

Il Pd alla prova dell'autocritica e la retorica aerea di Enrico Letta

Marianna Rizzini

I dem auto-analizzano la sconfitta e dicono no al correntismo, no al maschilismo, no all'opa ostile in direzione Giuseppe Conte. Ripartire da sé, è il mantra che ripetono tutti. Come? Si vedrà

È il giorno della verità e dell'auto-verità, nel senso di quella che il Pd deve dirsi in direzione. E la verità è brutale per alcuni e alcune (“partito maschilista”, dice per esempio la presidente Valentina Cuppi, candidata in posizione complicata e non eletta, cosa di per sé fonte di autocritiche del day after; “il Pd è diventato il partito della difesa dello status quo”, dice per esempio Matteo Orfini). Ma la verità è anche non così drammatica per altri e per altre, nel senso del “siamo un grande partito, siamo comunque il secondo partito”. E insomma dalle dieci del mattino alle sette di sera va in scena il senno del poi, ma anche il senno che si vorrebbe non perdere.

 

Ci prova il segretario Enrico Letta, all'apertura del confronto, confermando di non volersi ricandidare e di voler però condurre fino al congresso il partito, partito di cui non vuole cambiare il simbolo che tanto parla dell'Italia, dice. Il lessico è importante, come avrebbe detto Nanni Moretti: si è affievolita la “capacità ascensionale ed espansiva” del Pd, dice Letta con termini aerei, e purtroppo però nei giorni precedenti la discussione è stata piuttosto terrestre, causa appelli esterni (Rosy Bindi e intellò) per lo “scioglimento”, per non dire di chi ha portato acqua a Giuseppe Conte. Fatto sta che il segretario dice che non ci saranno più governi di unità nazionale (“se il governo Meloni va in crisi, chiederemo elezioni anticipate”, è la frase che fa pensare all'altra occasione in cui non furono chieste, nel 2019).

 

E ricorda, Letta, di aver ricevuto un mandato dai cittadini per fare “una opposizione costruttiva ma intransigente e non consociativa” e invoca prioritariamente la pace, cosa che allarma chi ora teme l'opa del M5s anche attraverso la comune futura partecipazione alla manifestazione contro la guerra che il Movimento sta organizzando. E insomma Letta cerca di ancorare la discussione e il partito stesso ad alcune parole chiave: unità, allargamento, programma (abbiamo un bel programma, dice il segretario), sindaci (il segretario li ringrazia, e alla fine della giornata il sindaco di Bari Antonio Decaro ringrazierà comunque lui, Enrico, invitando a mettersi tutti in viaggio verso il congresso con molto orgoglio per un partito “che ci permette di dire quello che pensiamo” e per gli elettori che “nonostante noi ci hanno votato”).

 

Ultime ma non ultime parole: “Mandato”, “congresso” (senza troppo dilungarsi, “no calende greche”) e “giovani” (il cambio generazionale evocato precipita già, nel corso del dibattito, in alcuni interventi, a partire dal suddetto della Cuppi). Nel mezzo, c'è chi si appella al senso di sé (“siamo il partito dell'interesse generale”, dice Luigi Zanda, con un enorme “no” alle “pulsioni autodistruttive”). Roberta Pinotti trova, a ritroso, non molto intellegibili per l'elettore, nel senso della coerenza, le alleanze con Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, non proprio sulla linea Pd in politica estera. Anna Ascani addita la “sopravvalutazione della capacità di trazione dell'opzione Draghi”. Walter Verini non vuole che il Pd diventi un “acquario che perde acqua” e invita per così dire a prendere l'autobus, come diceva Zavattini, per andare a vedere che cosa succede nelle città (caso delle babygang a Roma: si pone un tema antropologico, dice Verini).

 

Si attende l'intervento di Goffredo Bettini, colui che nei giorni scorsi è stato visto come polo sotterraneo degli avvicinamenti al M5s. E Bettini dice che no, non ci sarà la cosa rossa né la cosa gialla, e neanche lo scioglimento. “C'è stata un sconfitta politica”, dice, “il Pd ha svolto un importante ruolo di tenuta del paese ma non ha saputo far emergere una netta proposta ideale e un profilo identitario. Lo dico chiaramente: oltre alle modalità e alle alleanze, noi dobbiamo mettere al centro della discussione cosa vogliamo essere”. Pare facile. Paola De Micheli parte lancia in testa con la questione “misoginia”: “Mi candido e non in solitaria, qualcuna deve cominciare. Il congresso non è un concorso di bellezza, ci sono candidature in campo da tempo, le idee camminano sulle gambe delle persone che ci piaccia o no. Poi si candida una donna ed è subito uscito il titolo su X Factor”.

 

Intanto Roberto Morassut invoca “un percorso più dirompente” di congresso e primarie. Ovvero: costituente. Il pomeriggio si fa denso di accuse: ricorre quella contro il “correntismo”. Ma anche quella sulla mancata rappresentanza femminile. Il sindaco di Bologna Matteo Lepore conta i segretari: “Nove ma sempre gli stessi volti, dobbiamo aver il coraggio di fare la rivoluzione che cambia i dirigenti senza rottamarli”. Gianni Cuperlo parla chiaro a chi parla nell'ombra: “C'è un'opa ostile contro di noi, chi si propone venga qui a dirlo. Dobbiamo scommettere su di noi, fare una vera alternativa radicale, radicata, popolare”. Matteo Orfini elimina i medici pietosi: “È stata un sconfitta grave e non va minimizzata. Perché va al di là del risultato numerico. In questa campagna elettorale non ho trovato una persona felice di votare il Pd. È stata una sconfitta politica profonda, che ha radici più profonde della segreteria di Letta e non è dovuta alla guerra. Dal Conte 2 in poi abbiamo lavorato per costruire il campo largo e non una proposta politica. Ci siamo affidati a Conte, a Draghi e questa è subalternità”.

 

Peppe Provenzano da un lato rassicura: non regaliamo la sinistra a Conte. Dall'altra intima: no ordini da Carlo Calenda. Debora Serracchiani enumera gli elettori perduti (8 milioni dal 2008) e chiede di evitare scorciatoie. Alessandro Alfieri accusa: ci sono stati dirigenti che hanno invitato a votare M5s. Irene Tinagli vorrebbe salvare le primarie. Il sindaco Antonio Decaro vorrebbe invece che si tornasse a “interpretare i sogni dei cittadini, smettendo di stare dietro alla porta dei capicorrente”. Cala la sera, dopo nove ore in diretta (elemento non indifferente). Letta replica ricordando: “Abbiamo perso tutti tranne Fratelli d'Italia. Abbiamo iniziato una discussione collettiva. Siamo questo e vogliamo essere questo. Ci assumiamo la responsabilità della sconfitta, ma abbiamo un futuro, a patto che accadano alcune cose rapidamente e con determinazione, a patto cioè che vestiamo subito le vesti dell'opposizione”. “Ci farà bene, l'opposizione”, dice il segretario, e non si sa se è un wishful thinking o una certezza, mentre cala il sipario sulla giornata numero uno della nuova vita di un Pd che si è visto sull'orlo dell'abisso.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.