(foto Ansa)

Gli umili (come Enrico Letta) saranno gli ultimi

Giuliano Ferrara

Il segretario del Partito democratico è una brava persona, ma in politica (e gli esempi vanno da Machiavelli a Reagan) vince l’impudenza

Umiltà e politica, entro certi limiti, non vanno d’accordo. Ieri Enrico Letta, dicendo niente, nada, zero, al vertice del suo partito uscito politicamente malconcio dalle elezioni, ha ripetuto il senso morale della cerimonia della campanella a Palazzo Chigi, durante la quale rifiutò un sorriso e perfino uno sguardo protocollare amichevole a Matteo Renzi, che lo scalzava dalla guida del governo. Si era sentito “umiliato” dal famoso “Enrico, stai sereno”, e scelse di espiare in pubblico l’umiliazione, di fronte a un successore baldante e soddisfatto, prima di un esilio parigino e delle dimissioni dalla politica, tardivamente rientrate con la sua chiamata sette anni dopo alla direzione del Pd.

Letta è una brava persona, come si dice, e le brave persone meritano stima. Però i torinesi, che nelle sottigliezze ironiche dell’ipocrisia ci sguazzano per formazione e carattere, per quel fondo orgogliosamente calvinista e perfino puritano della loro cultura, di uno così affermano che è “tre volte bravo”, definizione che sa di scherno, molto diminutiva. Intendiamoci bene. Il Pd è un organismo malato, introverso nel senso di inespressivo, abulico. Chi lo ha votato lo ha fatto in genere con grande tristezza, addirittura con un fondo di compassione. Per un segretario uscito scornato dal voto, aggredito con un certo successo dalla sua destra e dalla sua sinistra, e battuto dalla destra disinvolta e arrembante della coalizione avversaria, non era facile esprimere non dico visione, ma nemmeno una carica di idee e di prospettive convincenti.

La discussione che lo circonda tra gli intellettuali e i guru del giornalismo politico e nelle file del gruppo dirigente, è penosa, balbettante. Se ne va, torna in esilio, abbandona il simulacro di un potere evanescente nelle mani di una nuova generazione che non si vede, che al massimo è un’entità opaca, nebbiosa, mentre i giochi di corrente e di posizionamento degli anziani padroncini del consenso interno riprendono a strisciare come i serpenti sotto le foglie, sa che nessuno lo starà davvero a sentire, non si può pretendere che una persona umile, decente, mostri una qualunque lingua o immagine di razionalità viscerale, capace di illudere almeno un poco, di spronare, di motivare, come dicono gli amministratori delegati di successo. 

 

Ma qui è il punto. L’umiltà è la disponibilità all’ascolto, l’idea che c’è sempre qualcosa da imparare dagli altri, una buona maniera di convivenza, mentre la politica è comunicare un progetto, anche con l’aiuto dei miti e dei sogni, e cercare un effetto di dominio, fatto anche di cattive maniere, per realizzarlo. Machiavelli scriveva che il condottiero deve essere metà leone e metà volpe, non catalogava la ferinità e l’astuzia tra le ordinarie, umili, qualità umane necessarie a creare e guidare lo stato. De Gasperi, Fanfani, Andreotti, anche Moro, e poi Craxi, Berlusconi, Renzi quelle qualità animalesche, scontati i loro errori, il loro destino che è sfuggente per ogni uomo pubblico e privato, le hanno avute. Nel mondo, è lo stesso. Se Martin Luther King fosse stato umile, invece che un impudente sognatore, non avrebbe contribuito a desegregare i neri d’America. Per un progetto da realizzare con feroce astuzia bisogna fumare a catena e intimidire come Golda Meir, prendere a borsettate l’establishment come la Thatcher, traspirare ottimismo della volontà con la forza di un Reagan, brandire la croce e la rivolta sotto la Madonna Nera come Giovanni Paolo II, ubriacarsi di sé e di libertà come Walesa, e se non ci sono le condizioni, se l’andamento del tempo è meno interessante o più banale, fare qualcosa che assomigli a quelle qualità oltraggiose, per niente umili, anche negative agli occhi di chi è semplicemente perbene. Impoverito, come asciugato, dalla propria umiliazione, Letta avrebbe dovuto almeno fingersi ricco, mimare un orizzonte politico anche se nessuno lo scorge tra cielo e mare, improvvisarsi capo nella transizione

L’umiltà è venerata da cristiani, ebrei, islamici, è una qualità religiosa, santifica il quotidiano e rafforza lo spirito perfino quando si combina con una fede fanatica, come nelle abluzioni del commando che perpetrò l’orrore islamista dell’11 settembre, ma non è una dirimente qualità politica, nemmeno come antidoto al suo opposto, l’arroganza, l’orgoglio su cui si fondano gli equivoci nazionalisti e populisti di oggi. Questa ambigua qualità, coltivata dalla sinistra cattolico-democratica recente come un totem, non conduce al bene comune, per non parlare del successo di parte o di partito, conduce al flop.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.