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Parlare di leadership, non di simboli. Guida contromano al congresso Pd

Michele Salvati

Parlare di leadership, competere e smetterla di occuparsi dei non temi: nome e simbolo. Guida per orientarsi nella confusione del Partito democratico

Il primo ottobre Enrico Letta ha inviato agli organi e agli iscritti del partito, e fatto circolare pubblicamente, un documento dal titolo “Lettera sul processo costituente del nuovo Pd: apertura opposizione, nuova vita”. Il titolo corrisponde al contenuto: si tratta sostanzialmente di un documento sull’organizzazione di un congresso che dovrebbe iniziare in tempi molto brevi. In esso c’è un pieno riconoscimento della sconfitta, una sconfitta che il segretario imputa a due cause: (a) alla mancata soddisfazione del requisito che la legge elettorale richiedeva al fine di ottenere un buon risultato, la costruzione di una coalizione più ampia; (b)  alla “mancanza di capacità espansiva nella società italiana”: cioè, se ho capito bene, alla mancanza di una proposta politica che trovasse un più forte riscontro positivo nell’elettorato.

 

Il partito non ha affrontato in modo soddisfacente entrambe le cause, o, come Letta preferisce dire, i due “nodi da sciogliere”: essi sono sempre ben stretti e sarà il congresso a doverli sciogliere. Al congresso Letta si presenta non solo come dimissionario, cosa doverosa per un segretario nazionale dopo una tale sconfitta, ma dichiarando che non intende ripresentarsi per la stessa carica nel prossimo congresso. E augurando che quei “nodi” vengano identificati e sciolti, il secondo soprattutto, attraverso una “rigenerazione” del gruppo dirigente del partito. Rigenerazione che deve avvenire attraverso “contenuti nuovi” e “volti nuovi”, due aspetti strettamente collegati dello stesso problema di identità debole, di una linea politica poco attraente per le domande popolari che le elezioni hanno rivelato. Difficile non essere d’accordo per chi ritiene, come io ritengo, che il Pd possa avere un futuro nelle condizioni interne e internazionali nelle quali esso dovrà combattere, e questo senza camuffarsi dietro un nuovo nome, nuovi simboli e altri espedienti di facciata.

 

Per chi così ritiene – e tra di essi c’è sicuramente Enrico Letta, come segretario in carica sino alla fine del congresso e parlamentare del partito – annunciare, senza attendere gli esiti del congresso, la rinuncia a ricandidarsi come segretario, potrebbe però avere effetti negativi sulla qualità e la radicalità della discussione congressuale. Potrebbe dare l’impressione che la sua partecipazione al congresso sarà poco impegnata e combattiva. Che vuole liberarsi di un compito che sente ormai come un fardello insopportabile. Che al congresso non farà un resoconto di quelli che egli ritiene siano stati suoi errori personali e invece di quelli che ha condiviso con l’intero gruppo dirigente del partito. Insomma, quell’autocritica e insieme quel “j’accuse” spietato di cui credo ci sarebbe un grande bisogno e che le sue capacità e l’esperienza che ha vissuto lo metterebbero in grado di fare.

 

Crede davvero Letta, sino in fondo, alle capacità rigenerative del partito e alla capacità di “volti nuovi” di identificare una via d’uscita dal dilemma di essere un partito di governo e al tempo stesso rispondere alle domande di elettori impoveriti e preoccupati, senza però attuare una linea politica massimalista o populista? Insomma, mantenendo l’ispirazione che l’ha indotto a difendere strenuamente l’“agenda Draghi” e il Pnrr e per questo ad opporsi alla scelta di chi ha fatto cadere il governo, aprendo così la strada alla vittoria elettorale delle destre? I “volti nuovi”, di giovani e di donne, sono figli dei “volti vecchi”, inseriti nelle correnti il cui contrasto ha finora impedito al Pd di dare un’immagine chiara ai suoi elettori. Idee unitarie innovative non se ne sentono circolare e sono scettico che circoli, agorà, assemblee – insomma, più discussione e democrazia – abbiano gli effetti rigeneratori che Letta si attende. Un politico esperto dovrebbe sapere che un dibattito interno al partito, come sarà quello congressuale, se non è guidato da personalità forti potrebbe rifluire in una versione sterile del perenne contrasto tra riformisti e massimalisti di cui scriveva recentemente Paolo Pombeni sul Mulino.

 

Giustamente, Letta potrebbe obiettare che il suo compito immediato e istituzionale era quello di avviare il congresso e che il suo comportamento nel corso di esso dovrà essere valutato mentre si sta svolgendo. Per le ragioni appena accennate ci auguriamo di assistere a un comportamento molto combattivo, anche se alla fine una convincente linea riformista non dovesse prevalere. Ma sarebbe peggio se alla fine prevalesse una linea fintamente unitaria e venisse scelto non il leader di un partito che ha ritrovato fiducia e orgoglio, ma l’ultimo capo di un partito spaccato in due, con già scritto il destino di capro espiatorio in caso di insuccesso elettorale.

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