Enrico Letta (Ansa)

L'arte di perdere

La sconfitta, per la sinistra italiana, è una disciplina. Con un antico rituale: l'analisi del voto

Francesco Cundari

Dalle politiche del ’94 al referendum del 2016: quando perdere è un’arte. E subito dopo comincia  la lunga e mai conclusa battaglia tra i sostenitori di una modernizzazione senz’anima e i fautori di un caloroso primitivismo

Fedele almeno in questo a una radicata tradizione nazionale, la sinistra italiana non si è mai trovata a proprio agio con le vittorie, che le sono sempre apparse in qualche misura mutilate, tradite o incompiute. Un po’, forse, perché di veri, grandi e indiscutibili trionfi, nella sua lunga storia, non è che ne abbia visti moltissimi. E un po’ perché, in un modo o nell’altro, se non nella vittoria in sé, perlomeno nelle sue cause, o magari nelle sue conseguenze, ha avuto sempre l’insopprimibile tendenza a trovare qualcosa di storto, qualcosa che non andava, qualcosa di troppo grande o qualcosa di troppo piccolo, comunque qualcosa di sufficiente a mandargliela di traverso.

 

Si tratti di un atavico senso di colpa legato alle proprie passate pulsioni rivoluzionarie represse, o più banalmente del fatto che la sinistra italiana, anche la più radicale, è pur sempre italiana – cioè cattolica, o per meglio dire bacchettona, moralista e tendenzialmente infelice – sta di fatto che alle vittorie non si è mai affezionata. E tanto meno abituata.
In compenso, se c’è una cosa che la sinistra italiana ha imparato a fare davvero bene, un’arte insegnata e praticata con rigore dall’intera comunità, tramandata di padre in figlio, dal primo dei dirigenti sino all’ultimo dei militanti, quella è proprio l’arte di perdere. Più che un’arte, una scienza: implacabile come la matematica ed elegante come la geometria. 

 

La sconfitta, per la sinistra italiana, non è mai stata semplicemente un fatto, men che meno una fatalità. La sconfitta è una disciplina, che richiede una pratica costante e un’adesione totale, quasi fosse una religione, che non per niente trova il suo momento fondamentale in un antico rituale chiamato ancora oggi, con inconfondibile gusto positivistico, analisi del voto. Vale a dire, nove volte su dieci, inevitabilmente, analisi della sconfitta.

L’analisi della sconfitta è lo yin e lo yang, l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine di tutto. L’analisi del voto delle europee del 1999 non sarà l’ultima delle cause della caduta del governo guidato da Massimo D’Alema, la prima volta di un ex comunista alla guida dell’esecutivo, costretto a formare un secondo governo che tenesse conto dei nuovi equilibri (tradotto: facesse posto all’Asinello fondato da Romano Prodi subito dopo la sua uscita da Palazzo Chigi, nell’autunno del 1998, ma rispondesse anche a diversi altri sommovimenti di microfisica coalizionale, dall’Upr al Trifoglio, che sarebbe crudele approfondire); l’analisi del voto delle regionali del 2000, in ogni caso, comportava la fine anche per il secondo (e ultimo) governo D’Alema.

 

L’analisi della sconfitta subita alle politiche del 2001 avrebbe funestato i gruppi dirigenti della sinistra per secoli. A cominciare sarebbero stati i girotondi animati da Nanni Moretti, con il suo celebre “con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai”, urlato nel febbraio del 2002 in piazza Navona all’indirizzo di Piero Fassino, segretario dei Ds (peraltro appena eletto dal congresso), e Francesco Rutelli, leader della Margherita, nonché candidato premier, come si usa dire (incuranti del fatto che in Italia, a rigor di termini, non esistano né l’elezione diretta del premier, né il premier).

 

Il panorama politico del 2002, se si guarda ai nomi dei suoi protagonisti, può apparire molto diverso dall’attuale. In quel momento Matteo Renzi è solo un giovane segretario di sezione del Partito popolare fiorentino, Beppe Grillo un comico da tempo esiliato dalla tv, Carlo Calenda un oscuro funzionario della Ferrari, Luigi Di Maio uno studente liceale di Pomigliano d’Arco e Giuseppe Conte un professore di Diritto privato che ha appena ottenuto la cattedra. Ma se i nomi sono, in parte, diversi dagli attuali, in compenso c’è tutto il resto.

 

E’ allora che si apre il primo vero scontro tra i sostenitori di una concezione della politica come scienza esatta, in cui i cittadini finivano per essere nient’altro che cavie da laboratorio, e i fautori di un ritorno alla politica come sentimento, passione, idealità (se stiamo al modo in cui l’avrebbero raccontata i secondi, nonché il cento per cento dei giornali, dei programmi televisivi e degli intellettuali di sinistra, ma pure di destra). Da un lato i sostenitori di un approccio razionale, fondato su dati e argomenti, dall’altro i fautori di un approccio sentimentale, che qualunque dato e argomento razionale in contrasto con le proprie pulsioni lo rifiuta per principio, e lo condanna, proprio in quanto freddo, distaccato, senza cuore. Comincia insomma la lunga e mai conclusa battaglia, a sinistra, tra i sostenitori di una modernizzazione senz’anima e i fautori di un caloroso primitivismo. 

 

Finirà, momentaneamente, con una tregua insincera e precaria, con il ritorno di Prodi ma anche di D’Alema, con la fondazione della lista unitaria da cui sorgerà il Partito democratico, che dovrebbe rappresentare la sinistra riformista, ma anche con una coalizione larghissima, con dentro ben due partiti comunisti, nel 2006, che ovviamente reggerà ben poco, dopo aver vinto di un soffio. E soprattutto dopo essersi intestardita a fare come se avesse stravinto, anziché pareggiato, rifiutandosi di concedere all’opposizione nemmeno la presidenza di una delle due Camere, come si faceva persino con il Pci (qualcuno per la verità lo aveva suggerito, ma cinque anni di linciaggi in nome dell’intransigenza e del no ai compromessi avevano ormai fatto passare la voglia di fare politica anche ai meglio disposti).  

 

Le analisi del voto del 2008 e del 2013 sono due casi molto singolari, e per certi versi speculari: una disfatta presentata come una clamorosa vittoria e una vittoria risicata presentata come una sconfitta. Il 33,1 del Pd che diventa sistematicamente 34 nelle parole del segretario, Walter Veltroni (e di tutti i giornalisti compiacenti o semplicemente pigri, cioè di tutti i giornalisti), e la “non vittoria” di Pier Luigi Bersani, il super favorito della vigilia che, dopo essere praticamente scomparso sin dalla sera del voto, ricompare l’indomani, all’ora di pranzo, e in conferenza stampa dichiara: “E’ chiaro che chi non riesce a garantire governabilità non può dire di aver vinto. Non abbiamo vinto anche se siamo arrivati primi e questa è la nostra delusione”.

 

Perché anche le vittorie elettorali, come le famiglie felici, alla fine si assomigliano tutte, ma ogni sconfitta è infelice a modo suo. E a suo modo istruttiva. Ciascuna reca in sé una diversa ma ugualmente preziosa lezione, che una corretta e severa analisi del voto ha il compito di estrarre con sapienza da quel groviglio di percentuali, dati parziali e risultati locali, proiezioni e comparazioni che un tempo, all’indomani delle elezioni, inondavano le scrivanie fin dell’ultimo segretario di sezione. Una messe enorme di dati che alimentava dibattiti lunghi settimane, a volte mesi, in qualche caso perfino anni (sulle ragioni della sconfitta del 1994 si discute ancora). Almeno in quel tempo in cui esistevano ancora i partiti e le sezioni, e soprattutto l’idea che la politica fosse effettivamente qualcosa che meritava non solo la passione dell’invettiva e dello sfogo, ma anche la pazienza dello studio. E forse tutto ha cominciato a precipitare proprio nel giorno in cui si è preso a considerare come segno di autentica passione civile la capacità di indignarsi e di gridare, che non costa nulla, piuttosto che la disponibilità a studiare, informarsi, ragionare e discutere, che costano moltissimo, e si pagano subito non soltanto in denaro, ma soprattutto in tempo libero, serenità e buon umore.

 

Nel 2008, in cambio della segreta delusione per l’esito di quel voto che nonostante tutto si doveva presentare come un trionfo, e che proprio per questo era meglio non analizzare troppo in dettaglio, il Pd si consolava dedicandosi con passione all’analisi del voto americano e all’ascesa di Barack Obama. Nel frattempo, tuttavia, perdeva anche svariate tornate amministrative e regionali, suggerendo così la perfida battuta ad Arturo Parisi: “L’Abruzzo è difficile da riconquistare, ma l’Ohio è nostro”.

 

I referendum non avrebbero riservato alla sinistra minori delusioni (o almeno a una sua parte). Dal punto di vista dell’analisi del voto, in teoria, l’esito di una consultazione referendaria dovrebbe essere il più semplice di tutti. Lì, in fondo, le opzioni sono solo due: sì o no. Ma l’analisi del voto non è mai soltanto un’analisi del voto. 

 

Sull’esito del referendum costituzionale del 2016 si sono scritte biblioteche. La tesi prevalente, quasi unanime, è che a determinare la sconfitta della proposta sia stata la “personalizzazione” del referendum da parte di Renzi, in particolare con la dichiarazione che in caso di insuccesso avrebbe lasciato la politica. La tesi di Renzi è che il suo errore sarebbe stato non vedere la “politicizzazione” del referendum, in particolare da un certo momento della campagna in poi, anche per via dell’ostilità di quasi tutti gli altri partiti, che avrebbe prevalso anche sul merito del quesito. 

 

E’ degno di nota come né gli uni né l’altro abbiano affacciato l’ipotesi che il problema, alle origini di un risultato referendario che vedeva prevalere il No con quasi il sessanta per cento dei voti, potesse essere, per l’appunto, il merito del referendum. Non perché contenesse nulla di particolarmente efferato (personalmente ho votato sì e non me ne sono mai pentito), ma proprio per quello che aveva in comune con tutti i tentativi di riforma precedenti, su cui tutte le forze politiche erano e sono da sempre d’accordo (almeno quando sono al governo) e che finiva per confondersi, non del tutto a torto, con la battaglia campale condotta sulla legge elettorale, il famigerato Italicum, dando quindi ancora una volta l’impressione che la principale preoccupazione del capo del governo non fosse quella di governare, ma di disegnarsi un sistema di regole su misura, che gli facilitasse la vittoria e che, una volta vinte le elezioni, gli garantisse di poter fare sostanzialmente quel che gli pareva. 

 

L’analisi più fessa rimane in ogni caso quella dei renziani secondo i quali il 40 per cento era sì una sconfitta al referendum, ma sarebbe stato un grande risultato per le politiche. Elezioni anticipate che comunque Renzi non riuscì a ottenere, restando quindi alla guida del Pd, dopo avere allo stesso tempo lasciato il governo e rinnegato la promessa di abbandonare la politica, imprigionato in una posizione da schiaffo del soldato conclusa dalla clamorosa sconfitta del 2018.

 

L’analisi del voto del 2018 praticamente non si è mai conclusa, ed è anzi destinata a confondersi con gran parte delle analisi di oggi. Al centro, ieri come oggi, c’è sempre il rapporto con i grillini, prima combattuti, poi corteggiati, infine scacciati ma al tempo stesso rimpianti, vezzeggiati, invitati a non allontanarsi troppo, a tenersi in contatto, a rivedersi prestissimo. Per fare la sua analisi del voto Elly Schlein, ad esempio, non ha nemmeno aspettato che si votasse. “Dopo il voto servirà dialogare con i Cinque stelle”, era il titolo della sua intervista a Repubblica alla vigilia delle elezioni, che non è proprio come l’appello di Michele Emiliano a votare nei collegi il candidato preferito, fosse del Pd o del M5s, ma certo quanto a capacità di mobilitazione, per un partito che puntava tutto sul voto utile, lascia qualcosa a desiderare. 

 

D’altra parte, stiamo parlando di una giovane promessa della sinistra che ha già una sua storia e una sua esperienza, girotondina post litteram ai tempi di “occupy Pd”, poi parlamentare europea, quindi uscita dal partito per aderire allo sfortunato Possibile di Giuseppe Civati, ma anche capace di tornare in campo raccogliendo migliaia di preferenze alle ultime regionali in Emilia-Romagna con una sua lista, ovviamente molto apprezzata da Romano Prodi, e soprattutto capace di commentare la lusinghiera definizione di “astro nascente della sinistra” data di lei dal Guardian (“Poteva mancare la definizione del Guardian? No, non poteva mancare”, avrebbe certamente detto Massimo Bordin, se avesse potuto fare la sua rassegna stampa in questi giorni), con le seguenti parole: “Interpreto il mio impegno a disposizione di uno sforzo collettivo”.

Ed è in questi momenti, quando senti persone più giovani di te pronunciare con sussiego affermazioni del genere, che ti rendi conto che non c’è analisi, razionalità, studio o passione che tenga, che sei semplicemente diventato vecchio, e stanco, e annoiato, e tra i molti inutili rimpianti della tua vita – per la politica di una volta, per i partiti di una volta e soprattutto per i capicorrente di una volta – prevale su ogni altro il rimpianto per un sistema previdenziale che a quarantacinque anni ti avrebbe consentito di andartene dritto in pensione, e non dover più leggere, ascoltare e commentare questa roba, come se fosse una cosa seria. 
Alla fine, in fondo, ognuno ha le analisi della sconfitta che si merita.