La Germania s'oppone al price cap. E La Meloni vede i fantasmi sulla sua via verso Palazzo Chigi

Valerio Valentini

La scelta di Scholz di stanziare 200 miliardi per il caro bollette manda in frantumi il piano europeo. La rabbia di Draghi e Cingolani. Le leader di FdI prova a copiare i toni del premier, ma sa che la mossa di Berlino è terribile per il suo futuro al governo: vuol dire che chi ha spazio di bilancio si salva, e gli altri s'arrangiano. E intanto Salvini rispolvera i toni sovranisti e insiste con lo scostamento

La prima reazione è quella di buttarla in politica. “Bisognerebbe chiedere un commento a Letta, che era da Scholz in campagna elettorale, e a chi dice che siamo tutti europeisti”, dicono a Via della Scrofa. E però la verità è che la scelta dei tedeschi di “fare da soli”, sabotando l’accordo sul price cap che faticosamente si stava costruendo in Europa, inquieta Giorgia Meloni e i suoi consiglieri. Perché quei 200 miliardi che Berlino mette sul tavolo, proprio alla vigilia del Consiglio europeo dei ministri dell’Energia chiamato a definire l’intesa sulla crisi del gas, sta lì a inaugurare, secondo i timori di Roberto Cingolani, una stagione in cui “chi ha spazio fiscale si salva, e chi non ne ha si arrangia”. E certo Meloni, immaginandosi a breve al governo, sa bene che la sua “nazione” non sta certo nel primo gruppo.

E insomma se a metà pomeriggio Mario Draghi decide di rilasciare una dichiarazione ufficiale, ribadendo che “davanti alla crisi energetica e alle minacce comuni dei nostri tempi, in Europa non possiamo dividerci a seconda dello spazio nei nostri bilanci nazionali”, è perché la strambata tedesca appare pericolosa per almeno tre ragioni. Anzitutto perché, rinunciando a fissare un prezzo massimo al gas e stanziando risorse statali per sostenere le aziende, rischia di risultare un incentivo perverso alla speculazione. Introducendo, peraltro, un elemento di squilibrio nel mercato europeo che avvantaggerebbe le imprese tedesche su quelle di altri paesi. E infine c’è l’aspetto politico: dopo mesi di autocelebrante retorica sull’unità europea di fronte all’autocrazia russa, si torna ad andare in ordine sparso, a privilegiare la logica dei rapporti di forza a quella della solidarietà.
Perché solo così si giustifica il ripensamento tedesco, a giudizio di chi segue il dossier al Mite: “Nell’ottica della Germania che fa il Marchese del Grillo: io sono io..,”, eccetera.

E sì che martedì sera, durante un evento della Confindustria tedesca, il vice cancelliere Robert Habeck, responsabile dell’Energia che già settimane fa aveva mostrato una buona disposizione verso la proposta italiana, aveva illustrato i vantaggi del price cap sul gas importato via tubo, compreso quello norvegese. Sembravano segnali di rinnovata apertura, dopo che la Francia, unendosi al fronte dei 14 paesi che richiedevano alla Commissione una soluzione comune sul tetto, aveva lanciato un messaggio che sembrava inequivocabile. E invece, a quanto risulta al governo italiano, proprio  Berlino ha suggerito a Ursula von der Leyen di non inserire, nel pacchetto offerto agli sherpa alla vigilia del Consiglio dei ministri competenti, il price cap. Troppo grosse le paure del settore produttivo tedesco sul rischio di mancate forniture. E troppo pressante la paura di Olaf Scholz sul malcontento popolare incombente: perché dal primo ottobre, a legislazione vigente, sarebbero stati i singoli cittadini a pagare un extra in bolletta. Dunque, todo modo per evitare grane: anche ricorrere, loro che possono, a 200 miliardi in deficit.

Un blitz, insomma, che lascia tutti spiazzati. Ed è sulla compattezza della delusione, e della sorpresa, che punta Cingolani in vista della sfida di questo venerdì a Bruxelles. “Ci sarà da combattere”, ha confidato ai collaboratori, spiegando come tutti i 15 ministri dell’Energia firmatari della lettera di tre giorni fa si ritroveranno concordi nel condannare la fuga in avanti di Berlino, e insisteranno perché la via al price cap europeo non venga sbarrata. Ci saranno, dopo l’incontro di domani, altri due Consigli europei ai quali parteciperanno non i ministri incaricati, ma i capi di stato e di governo. E saranno quelle, nel giro delle prossime due settimane, le occasioni residue. Che sono anche le ultime missioni ufficiali di Draghi. E certo, se non fosse stato costretto a negoziare da premier dimissionario sarebbe stato meglio. E forse una vertigine di paura deve avvertirla anche la stessa Meloni, se a tarda sera si lascia convincere a deporre i toni di risentimento e invoca, con toni che ricalcano quasi pedissequamente quelli usati da Palazzo Chigi, la solidarietà europea e la “compattezza di tutte le forze politiche” nel riconoscere che “nessuno stato membro può offrire soluzioni efficaci e a lungo termine da solo in assenza di una strategia comune”. E sarebbe tutto apprezzabile se non fosse che il primo a richiedere uno scostamento nostrano in risposta a quello tedesco, invocando il debito come uno scalpo da mostrare al nemico, è il suo alleato Matteo Salvini. “Urge intervenire anche in Italia, altrimenti le nostre aziende non potranno più competere e lavorare”, tuona il leghista. E chissà se parla a Draghi o alla Meloni.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.