Bocciata da Draghi sulle alleanze, incalzata dal Cav.: ora Meloni teme il ricatto russo di Salvini

Valerio Valentini

Il voto a difesa di Orbán mette la leader di FdI nell'angolo. "Non potevamo cedere sul punto di principio", dice lei: "Oggi l'Ungheria di Viktor, domani noi in Italia?". Ma il premier la critica con durezza. E in vista del 25 settembre, e del governo che ne seguirà, il capo della Lega è una scheggia impazzita

Le polemiche, quelle le aveva messe in conto. Quando Raffaele Fitto, sovrintendente agli affari europei, l’aveva avvertita del voto sull’Ungheria in arrivo a Bruxelles, spiegandole che la risoluzione era un condensato di furore ideologico ispirato dai socialisti, Giorgia Meloni aveva escluso qualsiasi cedimento.  Ché “non si può legittimare il principio per cui ai governi democraticamente eletti si danno patenti di presentabilità”, sennò “oggi tocca all’Ungheria di Viktor, domani alla Polonia degli amici del PiS, e poi all’Italia”. L’Italia di Giorgia, appunto. Solo che neppure lei si aspettava un attacco così subdolo del Cav., e una critica così aspra da parte di Mario Draghi. Come se non bastasse, poi, ci si mette pure Matteo Salvini. Che, dicono i pretoriani di Donna Giorgia, “o ci è o ci fa”, ma in ogni caso, col suo perdurante ammiccare alla Russia, fa danni.

 

Il tourbillon di polemiche era scontato. “Due giorni di titoli sui giornali, nulla più”, sibilavano a Via della Scrofa, giovedì sera. “Gli italiani che incontro per strada, alla  parola Orbán, si chiedono:  Orbán a un occhio o all’altro?”, se la ride Ignazio La Russa. Come a dire: “Elettoralmente ininfluente”. Però è chiaro che l’intervento di Draghi, la sua severità sulle scelte diplomatiche di Lega e FdI in conferenza stampa, segnala un problema per una Meloni che finora aveva esibito un’attenzione quasi morbosa a mostrarsi in linea col premier uscente, come sentisse già il peso della successione.  E sarà vero anche quello che dice, con logica da calcolatore, Giovanbattista Fazzolari, sommo suggeritore della leader di FdI,  e cioè che “non essendo noi un partito ‘draghiano’, le critiche di Draghi non ci danneggiano affatto”. Ma sentirsi dire dall’ex capo della Bce, alla vigilia del suo viaggio a Washington, che “noi abbiamo una certa visione dell’Europa,  e i nostri alleati sono Germania e Francia e gli altri paesi che difendono lo stato di diritto”, ha fatto un certo effetto nella Meloni. Specie perché, poi, quasi volesse infierire proprio ironizzando sul malinteso  sovranista insito nella retorica patriottica di FdI,  il premier ha aggiunto: “Bisognerebbe chiedersi quali sono i partner che mi aiutano a difendere meglio gli interessi degli italiani e chi conta di più tra questi partner”.

   

Del resto, qualche segnale sui possibili effetti collaterali di un voto – quello espresso da FdI insieme alla Lega e ai rispettivi gruppi in sostegno di Orbán – era arrivato già nella serata di giovedì. Quando, cioè, i dirigenti meloniani avevano sentito le dichiarazioni  rilasciate da Berlusconi al Tg3 contro le ambiguità diplomatiche degli alleati del centrodestra. “E non si tratta di fare pedagogia istituzionale”, insiste Giorgio Mulè, sottosegretario alla Difesa di FI. “Ma questo momento storico pretende in politica estera di essere assertivi, a partire dall’Europa e ancor di più dall’europeismo”. E se La Russa, con tono guascone, prova a liquidare le divergenze facendo ricorso al romanticismo (“Fin dal ’56, quando sento la sinistra parlare male dell’Ungheria, dei ragazzi di Buda, istintivamente divento diffidente”), Mulè parla come chi ritiene che l’incidente vada chiarito: “Certo che  si inchina al principio democratico dell’autodeterminazione dei popoli, ma non si può tollerare che questo vada in contrasto con i nostri valori fondanti. Occorre evitare una pericolosa e inaccettabile contaminazione di ciò che ci fa stare insieme”.

   

Insieme, appunto, i leader del centrodestra ci si ritroveranno giovedì prossimo, a piazza del Popolo, per la chiusura della campagna elettorale. E lì la posizione della Meloni rischia di essere complicata, stretta  nel mezzo tra un alleato – il Cav., che punta a esserci di persona, sul palco, ma che registrerà un videomessaggio di sicurezza, per poi delegare in caso Antonio Tajani – che le rimprovera scarsa fedeltà euroatlantica e un altro che invocherà, di nuovo, la sospensione delle sanzioni a Mosca.

   

E qui si viene all’altro problema della Meloni:  Salvini, certo. E non perché le sue acrobazie geopolitiche mettano a rischio il risultato elettorale di FdI. Semmai le incognite riguardano il dopo, l’eventuale governo che verrà. Perché Salvini, questo è il giudizio condiviso dai consiglieri della Meloni, “un po’ ci è”, ché davvero non sembra rendersi conto della pericolosità delle sue posizioni filorusse, “e un po’ ci fa”, nel senso che potrebbe anche usare se stesso, la sua inopportunità diplomatica, come un’arma contundente contro l’amica Giorgia, un estremo ricatto sull’alleata ansiosa di accreditarsi agli occhi delle cancellerie europee delll’Amministrazione Biden. Forse sa anche lui quello che Giulio Terzi di Sant’Agata, già ministro degli Esteri e ora candidato con FdI, uno che l’intransigenza di certi umori di Washington la conosce bene,  spiega ai suoi interlocutori: e cioè che in una fase come questa, gli americani tendono a distinguere tra amici e nemici, tra  bianco e  nero, senza ammettere grosse distinzioni. Meloni cosa vorrà fare, con le variazioni di grigio di Orbán e Salvini?

Di più su questi argomenti:
  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.