Il rischio con Meloni è il trumpismo

Claudio Cerasa

Il Financial Times, come le sinistre, si preoccupa del fascismo immaginario. Invece ci sono cinque punti su cui la leader di Fratelli d'Italia può far deviare l’Italia. Dal sovranismo economico all’euroscetticisimo. Indagine

Le devianze, e poi? Ha scritto la scorsa settimana con toni preoccupati il Financial Times che l’Italia, oggi, è sulla buona strada per consegnare il potere, a settembre, al primo leader di estrema destra dai tempi di Benito Mussolini. Il riferimento, naturalmente, è a lei, a Giorgia Meloni, alla Ducia, e il commento del quotidiano della City si concentra principalmente su quel punto: il fascismo della destra che si candida a guidare l’Italia. Una destra, scrive il Financial Times, la cui leader, che non è certo fascista, è circondata però da vecchi fascisti. E il pericolo per le istituzioni italiane di avere una destra estremista alla guida del paese, capace di cambiare in modo rovinoso la nostra Costituzione, di terrorizzare i mercati e di portare il paese lontano dalla retta via è un pericolo più che reale. Il Financial Times fa bene a tenere alta l’attenzione sul pericolo di avere alla guida di uno dei paesi più importanti del mondo una destra estrema, ma come molti osservatori commette un errore strategico nell’illuminare i rischi veicolati dall’avere una Meloni al governo.

 

E concentrarsi sui rischi fittizi, aiuto arriva il fascismo, è il modo migliore per buttarla in caciara, per occuparsi del nulla e per perdere di vista i problemi reali. E dunque, si dirà, quali sono i pericoli veri, concreti, che si intravedono all’orizzonte osservando con sguardo attento il percorso imboccato dalla coalizione di centrodestra, spostandosi dal terreno del pregiudizio per avvicinarsi al terreno del giudizio?

 

Il primo punto, fondamentale, riguarda l’incapacità, da parte del centrodestra, di emanciparsi dalla spaventosa stagione del complottismo economico. E le posizioni assunte in questa campagna elettorale da Giorgia Meloni su due dossier molto importanti come Ita e Tim, aziende che secondo l’agenda Meloni dovrebbero essere in fretta e furia allontanate dal mercato e messe al sicuro sotto l’ombrello della nazionalizzazione, dovrebbero essere sufficienti a spiegare che guaio sarebbe per l’Italia avere alla guida del paese una destra desiderosa di scommettere, in termini di politica industriale, su una visione del mondo non così distante rispetto a quella messa in campo dai seguaci del modello Maduro e incapace dunque di rendersi conto che l’Italia può avere un futuro solo se farà tutto il necessario per attirare capitali e imprese dall’estero e non avrà un futuro se piuttosto che scommettere sulla calamita di investimenti scommetterà sulla calamità dell’autarchia.

 

Il secondo punto, anch’esso cruciale, riguarda l’ambiguità estrema dei rapporti internazionali coltivati dai leader del centrodestra, Giorgia Meloni e Matteo Salvini, i cui riferimenti politici fuori dall’Italia costituiscono lo specchio perfetto del mondo ideale che i due partiti hanno in mente: un mix tra il modello Le Pen, il modello Orbán, il modello Farage, il modello Trump. In altre parole, un mix di estremismo politico caratterizzato da una pulsione euroscettica, da una diffidenza di fondo per il multilateralismo, da una incapacità di considerare la cessione di sovranità in Europa come un valore aggiunto per la protezione del proprio paese e da una sfiducia assoluta per le istituzioni europee, con tutto ciò che potrebbe significare, per l’Italia, diventare il nuovo avamposto del trumpismo in Europa.

 

Il terzo punto, il terzo rischio concreto, è legato all’incapacità mostrata dal centrodestra di saper governare fino in fondo l’estremismo che il centrodestra stesso ha seminato nel tempo. E se un partito come quello di Giorgia Meloni considera accettabile avere a fianco a sé un partito che ha sottoscritto un patto di cooperazione rafforzata con il partito di Putin (la Lega), se considera normale schierare nelle proprie file politici che considerano il modello Draghi come un male da rimuovere (Tremonti), se considera normale non saper governare l’estremismo dei suoi rappresentanti sul territorio (il sindaco di Piombino che si oppone al rigassificatore è di Fratelli d’Italia) non si capisce come possa con credibilità candidarsi a guidare l’Italia quando non riesce a governare neppure la sua coalizione.  


Un problema ulteriore, poi, non di poco conto, e qui siamo al punto numero quattro, è che gran parte delle svolte così dette moderate messe in campo da quella che oggi sembra essere destinata a essere la prossima inquilina di Palazzo Chigi, ovvero Giorgia Meloni, sono svolte spesso improvvise, per non dire improvvisate, che fino a prova contraria sembrano essere non un fine ma un mezzo per arrivare al governo (l’incoerenza è spesso una virtù, in politica, specie quando si sceglie di archiviare la stagione delle fregnacce, ma cambiare idea su tutto per andare al governo non è il massimo dell’affidabilità politica) e che come tutte le svolte improvvisate sembrano essere dettate esclusivamente dagli algoritmi del consenso (essere con Putin oggi è impopolare, e Meloni oggi è contro Putin anche per questo, ma quando, fino a tre anni fa, essere con Putin era popolare, Meloni su Putin  la pensava esattamente come Salvini, e la stessa Meloni, che oggi viene spesso descritta come un’antigrillina nel centrodestra, nella primavera del 2018 fu la prima a chiedere la messa in stato d’accusa del presidente della Repubblica, ancora prima dei grillini, quando Sergio Mattarella osò dire di no a un euroscettico come possibile ministro dell’Economia del governo gialloverde).

 

Il quinto punto, di preoccupazione reale, concreta, riguarda invece un altro fronte cruciale, che è quello dove il centrodestra tende spesso a dare il peggio di sé e quel fronte coincide con il governo dell’immigrazione. Salvini, al governo, ha già ampiamente mostrato cosa è in grado di fare, e soprattutto cosa è in grado di non fare, e abbiamo già a lungo ricordato perché il suo contributo al governo dell’immigrazione, ai tempi della stagione gialloverde, non ha risolto i problemi dell’Italia ma li ha peggiorati. Ma anche le proposte di Meloni, sul dossier dell’immigrazione, indicano una strada pericolosa per il futuro dell’Italia, e la stessa proposta di blocco navale da lei spesso evocata  indica una direzione pericolosa per il nostro paese. Non solo perché suggerire un blocco navale mostra un approccio all’immigrazione simile a quello mostrato da Salvini nella oscena stagione dei porti chiusi – significa aggirare i problemi, non affrontarli, e significa non capire che l’immigrazione la si governa non alzando muri, ma scommettendo su una solidarietà non volontaria da parte dell’Europa, coinvolgendo i paesi europei e non sfidandoli a singolar tenzone – ma anche perché parlare di “blocco navale” significa voler derogare all’obbligo di rispettare i trattati internazionali e al dovere da parte di un governo di ricordare che salvare le vite umane non è un dovere negoziabile.

 

Significa, molto semplicemente, voler mettere la sovranità di un paese come l’Italia in competizione con la sovranità di un’istituzione come l’Europa. E qui arriva il punto decisivo, che ci permette anche di spiegare meglio cosa significhi, per l’Italia, correre il rischio di diventare l’avamposto del trumpismo in Europa. Il problema non è la volontà di instaurare un regime fascista in Italia. Il problema è voler governare l’Italia non con l’idea di voler uscire dall’Europa ma con l’idea di indebolirla e con l’idea, in definitiva, che l’Europa dei governi possa battere l’Europa delle istituzioni, e che l’Europa delle istituzioni abbia sempre meno voce in capitolo quando si parla di scelte comuni: dalla transizione energetica alla tassazione globale fino alla condivisione del debito europeo. Sottovalutare questo problema, sottovalutare cioè il fatto che uno dei paesi fondatori dell’Europa possa mettere in contrapposizione nazionalismo ed europeismo, come tentano di fare da anni paesi a cui Giorgia Meloni si ispira, come la Polonia e  l’Ungheria, e come hanno tentato di fare nel passato con un certo successo anche i vecchi azionisti di maggioranza del gruppo europeo che oggi guida Meloni, i conservatori inglesi, significa non capire in che modo l’Italia rischia di tagliarsi le gambe da sola e significa non capire quanto possa essere pericoloso per un paese altamente indebitato come il nostro lavorare per non avere un’Europa più integrata, capace cioè di proteggere i paesi più fragili dalle minacce esterne.

 

Il patriottismo, in salsa meloniana, in fondo è questo: teorizzare la sovranità nazionale in contrapposizione allo strapotere di Bruxelles. E il rischio, per un paese come l’Italia, di essere governato dai nuovi campioni del sovranismo non è fare un passo nella stagione del fascismo, ma è fare un passo nella stagione del complottismo, scegliendo in modo deliberato di far entrare l’Italia in un’epoca buia: non quella della dittatura politica, ma in quella non meno spaventosa delle occasioni perse.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.