Il caso

Le liste del Pd sono un reality. Letta: "E' come togliersi il dente del giudizio"

Simone Canettieri e Valerio Valentini

Proteste, rinunce, ripensamenti, candidati paracadutati e territori in rivolta. Il segretario dem prova a minimizzare e intanto garantisce ad Amendola e a Ceccanti una posizione migliore

Pensavo peggio, e comunque è come se mi fossi tolto il dente del giudizio”. Enrico Letta riemerge nella serata di martedì, a quasi 24 ore dalla notte delle liste dem. Uno spettacolo unico nel suo genere: candidati che rinunciano al collegio perché “inidonei ai miei temi” e poi ci ripensano (Monica Cirinnà), illustri epurati come Luca Lotti, altri che “no, l’uninominale no” e quindi meglio gettar la spugna (è il caso di Alessia Morani). La lista è lunghissima. La bolla di Twitter, dove il Pd ha la residenza, impazzisce. Girano audio favolosi di Marco Meloni, il Lothar di Letta, che l’altra notte legge i nomi dei candidati durante la direzione e viene travolto da fischi e improperi di chi segue la diretta dai circoli di provincia. Di tutto di più. Il segretario dem, visto che c’è ancora tempo, alla fine passa la giornata a rassicurare Enzo Amendola (“Per garantirti l’ingresso al Senato al Pd basterà fare il 20 per cento su base regionale: accetta!”) e manda a dire Stefano Ceccanti, sacrificato nella sua Pisa per fare spazio a Nicola Fratoianni di Sinistra italiana, che anche per lui una soluzione si troverà. Il Pd che convintamente votò il taglio dei parlamentari in seconda lettura quando entrò nel governo Conte 2 adesso si trova alle prese con questo psicodramma. Dinamica comune agli altri partiti, che finora non hanno ancora iniziato e che di solito sono comunque più discreti nelle lamentele.  

Alla fine chi esce più penalizzata dalla roulette è Base Riformista, che non partecipa al voto finale e che perde Luca Lotti: l’ex ministro se la prende con la mancanza di garantismo e accusa scelte politiche ben precise del Nazareno. Letta gli risponde che “è solo una questione locale, rimasta in Toscana, che non è arrivata nemmeno al casello di Orte”.  E allora la giornata diventa anche di Matteo Renzi, che parla di scelte  guidate dal rancore. “Non è così: il modo migliore, stando a come ragiona Renzi, sarebbe stato fargli dire da Lotti: te lo avevo detto che avevi sbagliato a fare la scissione”, dice la portavoce di Letta, Monica Nardi, rimasta fuori dalle liste in compagnia di un pezzo di cerchio magico del segretario (Michele Bellini, Giacomo Possamai, Francesco Russo). In ogni caso, l’ala riformista dem è rimasta in dote a Lorenzo Guerini, chiamato però a presidiare la terra ostile della Lombardia, dopo un intervento in direzione per difendere l’amico sacrificato. A lui ha risposto Andrea Orlando: “Anche io sono rammaricato per il nostro Guccione che non sarà eletto”. Carinerie.
Del resto lunedì al Nazareno erano accampati un po’ tutti i leader (eccetto Franceschini) e i semi big del partito e i deputati europei Pina Picierno e Brando Benifei. Letta è convinto che il 26 settembre non gliela faranno pagare, a dispetto dei sospiri maligni di chi nota che, in modo non  diverso dal passato, la sua pattuglia di fedelissimi (da Nicita a Borghi allo stesso Meloni) il segretario l’ha schierata nel fortino del Senato. Lui però nega retropensieri, e anzi esalta i giovani capilista tirati fuori dai territori (Roggiani, Sarracino, Cerroni, La Regina e Scarpa). Il puzzle non è ancora completato.  Ci sono ancora una sessantina di uninominali che il Pd ha lasciato liberi per i candidati sostenuti dalla coalizione. Ad Ancona andrà il sindacalista Marco Bentivogli. Al sud sono aperte le caselle su cui sono pronti a fiondarsi Luigi Di Maio e Bruno Tabacci.

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