(foto Unsplash)

Un milione di alberi. Chi offre di più in questa campagna elettorale?

Antonio Pascale

I politici fanno quasi a gara con le promesse che lusingano gli ambientalisti. Ma poi: chi irriga, chi pota, chi cura queste piante? Lode ai boschi reali, contro l’idea di una natura benigna e ordinata, nostro illusorio paradiso perduto

Un giorno sì e un giorno no si parla di alberi: quanti ne piantiamo? Un milione di alberi, dice Berlusconi, no, quattro milioni dice Bonaccini. Finisce che un giorno sì e un giorno no sono felice per via delle suddette dichiarazioni: bello piantare alberi e bello anche il gioco al rialzo – anche se queste promesse mi ricordano Fantozzi e gli altri impiegati che per farsi belli con il visconte Cobram promettono che andranno in bici per 50 – no, che dico – 100 km, e così via. 

Però, siccome meglio piantare che non piantare sono felice e tuttavia poi finisce che passeggio e vedo uno che taglia un prato, privato o pubblico che sia. Perché con questo caldo? Come perché? Ordine ci vuole, ordine! Che sono tutte quelle specie che crescono disordinatamente? Con questo caldo, con questa siccità, se non puoi irrigare, tagliare il prato significa condannarlo a morire (è logica: il prato non fotosintetizza, va in stress, deve ricostruire l’apparato fogliare perduto, non ha acqua a sufficienza e muore). Oppure capita che partecipo a un convegno e mi chiedono: piantiamo alberi? Certo che sì, un milione, no quattro milioni, dieci milioni. Evviva, applausi. Poi certo, andrebbero irrigati e già qui qualcuno nel pubblico si defila.  Poi esco e lungo il marciapiede ci sono i fili che delimitano lo spazio e annunciano che da domani non si potrà parcheggiare per potatura straordinaria. Arriva la potatura che potatura non è, ma semplice brutale capitozzatura e vedi questi magnifici olmi trasformati in mazze di scopa, paesaggio rovinato, senso di morte e annuncio certo di futuri stress per la pianta, che sicuro diventerà ancora più debole e si ammalerà. Vedrete come alle prime piogge cadranno i rami, qualcuno si farà male, poi qualcuno dirà basta alberi che ci cadono in testa, tagliamo tutto, ma quale milione, quali quattro milioni di alberi.   

Episodi così mi rovinano la giornata, abbattono la fiducia che ho nelle promesse dei politici e degli assessori e di quelli che amano prendersi gli applausi.

Segnalano due equivoci duri a morire. Il primo: che la natura sia ordine, dunque fare più bello il pianeta significa nella sostanza tagliare il prato, all’inglese, per renderlo coerente e ordinato. Una idea di natura profondamente antropomorfizzata, addomesticata, un po’ come accade per alcuni animali che strappiamo dallo stato selvatico per farne nostri esecutori di ordini nonché attori per video molto carini su Instagram: sinceramente, uno schifo. E’ l’idea di natura stile paradiso perduto, dove leoni e agnelli erano entrambe specie vegetariane e parlavano con noi e noi dormivamo tra le loro zampe, serpente escluso. Finché questo equivoco durerà non ci sarà davvero salvezza, perché non ci sarà conoscenza delle dinamiche di un determinato ambiente. Perché da un lato ci dichiariamo arroganti figli di Icaro e facciamo mea culpa (che poi ci viene meglio quando accusiamo gli altri o un generico uomo) dall’altro vogliamo ricostruire con tutta la presunzione e l’egoismo del caso il giardino fatato e incorrotto senza renderci conto che quel giardino ospiterebbe a stento Adamo ed Eva. Forse non darebbe alimenti neppure per la loro progenie, figuriamoci otto miliardi di cittadini: avete presente quei tizi che si ritirano nei boschi o sulle alture e poi condannano chi sta in città? Avete presente il controsenso? Se tutti ci trasferissimo nei boschi, addio boschi e addio pace, altro che disboscamento sardo. Questo è un aspetto del problema, dico natura e immagino l’Eden (Eden, un pianeta da salvare... per citare quegli sdolcinati documentari che presenta Licia Colò). L’altro aspetto è nella vaghezza di certe dichiarazioni, per cui sembra che tutto sia facile, basta usare la formula magica: piantare un milione, ma che dico, quattro milioni di alberi. Bene, bravo, bis. Ma un momento, chi irriga? Chi pota, chi cura, chi concima? Quali alberi? Mica sono tutti uguali. Mica sono tutti utili. E soprattutto, sappiamo come si fa? O pensiamo che siccome la natura è di base un giardino ordinato e incantato poi si autoregola e in barba alle leggi universali darwiniane produce bellezza, ordine, diversità ecc. nonché agnelli e leoni che dormono insieme? Chiedetelo a quelli di Pompei mummificati dalla lava, che effetto fa la natura. Chiedetelo alle foreste di mangrovie cos’è l’ordine, ma anche a certe pinete piantate negli anni 30, chiedete della biodiversità e vedrete che rispondono: sono piante che si impossessano di tutto, come è naturale che sia. 

Giusto per concedermi una digressione: spesso, quando capitano eventi siffatti penso che la colpa sia tutta degli americani. Non c’entra il Patto atlantico che sottoscrivo con piena fiducia. La colpa è di quel messaggio che passa attraverso le consuete narrazioni, edulcorate, buoniste d’oltreoceano, siccome il tempo è denaro, vai con i tre atti e passa la paura. Non so se a proposito di piante (in realtà funghi) avete visto la recente serie su Netflix tratta dal libro di Michael Pollan, Come cambiare la tua mente – seguo sempre Pollan, perché è bravo, suggestivo, anche se sempre impreciso sulle cose importanti, e piace a tutte le persone che parlano di agricoltura intensiva al ristorante slow food un po’ costoso mentre mangiano, mangiano e mangiano. Come si fa? Usando – ci dicono – alcuni acidi. Niente in contrario, ma quello che mi sorprende è il racconto del trip da parte degli utenti. Uno ha un disturbo compulsivo che lo fa soffrire, bene, si sottopone a terapia con sostanza lisergica e viaggia e cosa vede? Vede un evento traumatico accaduto anni orsono. Due bambini lungo un crepaccio – uno è il protagonista. Un bambino – l’amichetto del protagonista – cade e muore. Da allora – si suppone – il nostro protagonista, per paura di mettere un piede in fallo, sviluppa la mania dell’ordine e il conseguente disturbo compulsivo che gli rovina la vita. Però grazie all’acido lui vede sé stesso dapprima precipitare, poi essere assorbito dalla terra, poi diventare seme, poi diventare albero, poi nutrire tutti con le proprie fronde. Si sveglia ed ecco: trauma rivissuto, favola raccontata, disturbo scomparso. Che bello se la vita fosse così e se gli acidi fossero così. Una cura collettiva, una bella storia in tre atti e non ci metteremmo a fare la guerra e a bloccare i porti col grano ucraino. Insomma, formule semplificate siffatte portano a farla facile, e cioè ad abbassare l’ostacolo per saltarlo con un oplà. Capite il timore che poi uno sviluppa quando, fatto il pieno di formule, ascolta dichiarazioni tipo: un milione, ma che dico, quattro milioni di alberi. Si soffre pensando agli equivoci di cui sopra e alla facilità con la quale pensiamo di affrontare i problemi. Che poi non si risolvono e diventiamo un popolo di frustrati perché il programma di allenamento non era per noi. Tocca dunque allenarci, conoscere dapprima il percorso che mette in comunicazione noi e l’ambiente, sapere che questo percorso non porta affatto alla costruzione del paradiso terrestre dove leoni e agnelli mangiano erba ma di un bosco col suo specifico percorso tortuoso. Porta, con tutto il rispetto per Bernini, a sostenere le ragioni di Borromini con le sue cupole che per ascendere al cielo si avviluppano tortuosamente, contro i colonnati che accolgono e poi non si curano di che farne degli accolti. 

Bisogna conoscere gli alberi, le piante per capire come e perché usarle. Ora, gli alberi sono dei meravigliosi organismi vegetali che mettono in comunicazione terra e cielo: non simbolicamente, praticamente. Assorbono con le radici (che si sviluppano per di più orizzontalmente, tranne le prime, quelle fittonanti che vanno in profondità) acqua e sostanze nutritive (e sì, le piante si nutrono e vanno nutrite, altrimenti le idee di progresso ecologico restano solo chiacchiere) e portano questa soluzione fino alla chioma. Qui le foglie aprono gli stomi e fanno entrare questo gas benedetto che è l’anidride carbonica che le piante grazie alla luce, all’acqua scindono (la splendida reazione fotosintetica), producendo amido, utile solo in apparenza per le piante, perché il glucosio è nel ciclo della vita (quando ci lamentiamo che i frutti non sono dolci...) e due sostanze di scarto (almeno nell’ottica della reazione) e cioè acqua e ossigeno. Siamo nipoti delle stelle, certamente, ma figli delle piante, senza per questo screditare la celebre canzone di Alan Sorrenti. Si capisce l’importanza, no? A parte il necessario stoccaggio della CO2 (ce n’è in eccesso, è un fatto misurabile). Una importanza elementare, forse per questo, presi come siamo dai master ci dimentichiamo delle cose elementari. Le piante poi comunicano in modi che stiamo cercando di scoprire, tanto sono vari e sorprendenti, ma nella sostanza le piante si fanno aiutare da alghe, funghi, batteri del suolo. Quindi, studiare le piante non è solo questione di fisiologia botanica – che una volta mi sembra si facesse al terzo anno di Agraria – ma di interazioni complesse. Complesse e dunque utili. Perché ci ridimensionano, ci spingono alla collaborazione e alla conoscenza approfondita, altro che tre atti. Ci sono più batteri in un pugno di terra che stelle in cielo, recita un nuovo adagio. Questi batteri aiutano la pianta, che poi aiuta noi. Questo solo per intenderci su quante cose ancora non sappiamo e dovremmo imparare, cioè, nella sostanza, approfondire, tortuosamente e poi divulgare insieme al messaggio “pianta più alberi che puoi”. 

Un’altra cosa si può dire delle piante: un bosco è una perfetta simulazione del cammino della nostra vita, e non c’entra il nostro nonno nobile con la sua selva oscura. A parte che in un bosco si sta bene perché si respira meglio, in un bosco si cammina proprio come in realtà si cammina nella vita – prima che le formule narrative americane e no ci dicessero che tutto dipende da noi, alimentando la nostra presunzione e portando avanti il potere della volontà, quando poi si sa che i due protagonisti nelle nostre vite sono il Tempo e il Caos, altro che volontà. Camminare in un bosco significa sentire il Tempo e il Caos, attraversare luci e ombre, sottobosco e radure, falsipiani e nuove prospettive ingannevoli e luoghi delicati e ombrosi, significa dunque imparare a camminare meglio nella vita, che non ha senso alcuno, se non quello di chiederci che senso abbia. Dunque, per scoprirlo, è necessario alimentare la nostra coscienza intima e sensibile e nervosa, divisa tra alti e bassi, luci e ombre, comprensioni e incomprensioni: la nostra coscienza, ovvero una camminata in un bosco per sentire le piante senza l’intromissione sgradita dei tre atti. Le piante, tra l’altro, contengono simboli elementari che ci raccontano in maniera semplice e senza inutili categorizzazioni che siamo sempre un prodotto ambivalente dell’ambiente, pieni di gioia e desideri, ma dotati di sensi di colpa, empatia, meschinità e quel poco di cultura che ci caratterizza e che ci suggerisce una riflessione: se miglioriamo l’ambiente (ma dobbiamo studiarlo per bene) miglioriamo anche noi: se non è il senso della vita questo… 
Comunque, piantiamo e poi andiamo tutti a irrigare o a potare, però come se non si vedesse la potatura. Oppure scegliamo piante (come il fico d’India, il migrante per eccellenza) che resistono alla siccità. Costruiamo insomma un giardino, non dell’Eden, ma un giardino che bene o male funzioni – un giardino che non si taglia quando si è in crisi idrica e non si ordina solo perché si ha paura della diversità. 

Di più su questi argomenti: