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Verso il voto

Giorgia Meloni conosce l'alternativa al gioco dei rancori, gli altri?

Giuliano Ferrara

Le elezioni sono un mix di aritmetica, per mettersi insieme e ottenere voti e seggi, e apparenze, soprattutto che riguardano delle coalizioni forti. La leader di FdI lo sa. Gli uomini politici non si sa

Il problema aritmetico imposto dalla legge elettorale è mettersi insieme per avere più voti e seggi e poter governare. Il problema politico è un’alleanza credibile. L’apparenza sotto elezioni è decisiva, non si sfugge, la sostanza programmatica e l’attendibilità intrinseca di una coalizione di governo e dei suoi uomini e donne vengono dopo. Su questo piano, la destra o centrodestra ha accumulato vantaggi. Aveva un handicap, era divisa tra chi è stato sempre all’opposizione e chi ha governato nel corso della legislatura. Non è cosa da poco, ovviamente.

 

È riuscita con tempismo a cancellare l’handicap mettendo in crisi il governo di unità nazionale, piuttosto popolare anche nei ceti medi imprenditoriali e rassicurante per una maggioranza di cittadini, con il vantaggio di attribuire la causa dello sfascio e dell’anticipo elettorale estivo ai grillozzi. Quella che Letta con superficialità chiama “la resa a Meloni” è un altro atout: hanno, senza bisogno nemmeno di dirlo, un candidato alla guida del governo, una donna, un tipo di politico non sperimentato in quel ruolo, una figura di opposizione in una legislatura molto divisiva, un capo erede della Bad Godesberg missina di Fiuggi (lasciamo la casa del padre), che ha temperato il suo naturale estremismo ideologico, e un chiassoso narcisismo dell’arrembaggio tradizionalista e sovranista, con una posizione in politica estera e sulla guerra in Europa solidamente atlantica e europeista e occidentalista.   

 

Se poi l’intervista al consigliere politico meloniano Guido Crosetto di ieri al Corriere (reciproco riconoscimento di valori, no riforme costituzionali in solitario, preoccupazione comune per la crisi d’autunno e per le sue conseguenze) completa sul serio questo quadro dell’apparenza e si riverbera sui modi della campagna elettorale, bè, per Letta sarebbe stato meglio poter dire “o noi o Salvini”, piuttosto che “o noi o Meloni”, dato il film già visto del wannabe ministro dell’Interno e il suo forte grado di spernacchiamento. Insomma, il centrodestra, con un anticipo di tempi importante in una campagna breve e accaldata, ha fatto della buona aritmetica realista, non gravata da remore moralistiche e ideologismi minoritari, e malgrado infinite riserve degli italiani e internazionali sulla sua palatabilità e maturità di forza di governo, è chiaramente in vantaggio.

 

Questo vantaggio, effetto bandwagon come dicono gli anglosassoni, se usato con agilità e acume politico, provocherà una corsa sul carro che ci stupirà, ma non poi così tanto. Se ci sono stati fior di liberali per Salvini (l’esimio professor Giovanni Orsina è un esempio) e molti perbenisti che ora fanno gli schizzinosi hanno tifato Grillo o Raggi (niente nomi per pietà), fioriranno i liberali per Meloni (mi pare orientato in questo senso il professor Luca Ricolfi, si dice candidato ombra all’Istruzione, di cui si intende). E questi salti trasformistici, per quanto inestetici, possono essere un bene che viene dal male, come sempre, dipende.

 

Nel centrosinistra emerge molta farragine e una eccessiva lentezza di riflessi. Enrico Letta ha le sue abilità e la sua bussola, ma non è uno che detta i tempi, anzi fa della lentezza paziente e del cacciavite le sue bandiere. Quella che Pier Luigi Bersani chiama “la fatwa” contro i grillozzi, improvviso non expedit dopo il lockdown superbonus taglio del numero dei parlamentari e Pnrr realizzati di concerto e entrati nell’efficace cantiere di Mario Draghi nell’ultimo anno, apparirà tra qualche tempo una clamorosa violazione dell’aritmetica elettorale, forse con la vistosa conseguenza politica della non competitività maggioritaria del centrosinistra.

 

Carlo Calenda ha buone idee, coraggio, abilità, ed è anche simpatico ad alcuni (quorum ego), ma dato il suo carattere estremamente bizzoso e una certa egomaniacalità tipica del liberale competente è da dimostrare che una cavalcata con lui, che sulla carta ha una forza nazionale celebrata ma relativa, possa trasformarsi in una corsa secondo le regole verso un traguardo vittorioso. Ha già annunciato in un cinguettio social che dopo le elezioni, ma subito subito, neanche un omaggio all’apparenza di una coalizione vera, lui farà il terzo polo. Strana idea del bipolarismo. D’altra parte deve evitare che un Matteo Renzi solitario sgonfi il suo magnetismo, e Renzi di errori ne ha accumulati, risulta non so perché ultrantipatico cioè fiorentino, ma nella legislatura ha saputo manovrare con sapienza, e una spericolata disinvoltura, ed è pur sempre caduto ormai da parecchio ma da alte ambizioni di chi ha parlato efficacemente a metà del paese, diversi 40 per cento, magari può in effetti far male non solo a se stesso.

 

Comunque l’apparenza in generale è di capi che si detestano, e il gioco dei rancori, delle incoerenze rinfacciate, dei moralismi atrabiliari, determina una non credibilità politica della coalizione che mi appresto a votare in mancanza di una alternativa in cui credere. E’ dunque poco credibile anche questo articoletto, e vi prego di considerarlo tamquam non esset, come dicono i giuristi. 

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.