Mercati tranquilli, spread non impazziti. Il dopo Draghi non fa paura

Claudio Cerasa

Sorpresa. Sette giorni dopo lo scioglimento delle Camere, il panico molto annunciato non c’è stato. Ragioni? L’irreversibilità dei pieni doveri. Spunti di ottimismo sull’Italia che verrà 

Sono passati sette giorni dal pomeriggio in cui il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha scelto di sciogliere le Camere prendendo atto dell’impossibilità da parte delle forze politiche, oltre che di Mario Draghi, di andare avanti in questa legislatura con una qualsiasi forma di governo. Sette giorni dopo, una delle sorprese più interessanti che hanno riguardato la settimana appena trascorsa è relativa a una catastrofe annunciata che fortunatamente ancora non c’è stata e chissà se ci sarà. Si temeva: cade Draghi e i mercati impazziranno. Si raccontava: finisce il governo e gli spread esploderanno. Si diceva: se ne va Draghi proprio nel momento in cui quella pasticciona di Christine Lagarde, numero uno della Bce, deve occuparsi di creare uno scudo antispread, e vedrete che disastro sarà per l’Italia. E invece? Invece nulla. Il differenziale tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi grosso modo è rimasto lì. I rendimenti dei Btp grosso modo sono rimasti lì. I mercati non si sono spaventati. La tranquillità indotta dallo scudo antispread non è stata turbata dall’avvicinarsi delle elezioni. E il panico che si temeva al momento non c’è. Nulla, zero, calma piatta.

 

Eppure, come dimostrano gli ottimi dati sul pil italiano certificati ieri dall’Istat – dati che hanno permesso di registrare un’accelerazione inattesa per la crescita del nostro paese nel secondo trimestre del 2022, più uno per cento, meglio della Germania – eppure, si diceva,  ragioni per essere preoccupati ci sarebbero: un governo che ha lavorato bene, conquistandosi credibilità in Italia e fiducia nelle cancellerie internazionali, è stato spazzato via dall’oggi al domani e potrebbe essere presto sostituito da un governo non pienamente europeista,  diciamo così, dominato dalle istanze di due destre nazionaliste specializzate nella declinazione del complottismo. Motivi per essere preoccupati ci sarebbero, dunque, anche per gli investitori, anche per i mercati. Ma la realtà, testimoniata sia dall’andamento della Borsa sia dall’andamento degli spread, è che la fiducia verso il futuro del nostro paese continua a essere praticamente intatta. Domanda: da cosa nasce l’ottimismo? Può darsi che c’entri qualcosa il fatto che la destra che si candida con buone speranze a guidare il governo non faccia paura come poteva far paura il governo gialloverde nel 2018. Può darsi però che la questione sia un’altra, più complessa e dunque più interessante.

 

Una questione che riguarda una particolare condizione in cui si trova il nostro paese e che ha a che fare con il vero partito candidato a guidare l’Italia da qui al 2027 comunque andranno le prossime elezioni: il Pub, il Partito unico dei binari. Ma che cos’è il Partito unico dei binari? Proviamo a spiegarlo, provando a  schivare gli inevitabili colpi di sole. Il punto è più o meno questo: dell’Italia del futuro ci si può fidare non perché tutti coloro che si sono candidati a guidare il paese offrano chissà quali garanzie di buon governo del paese, ma perché i binari italiani sono decisamente più solidi rispetto a come spesso vengono rappresentati. E per quanto si possa essere desiderosi che il treno italiano possa andare veloce, la certezza è che deragliare nei prossimi anni non sarà semplice. Per almeno cinque ragioni diverse, che vale la pena appuntarsi. La prima ragione riguarda la certezza che nei prossimi sette anni, comunque andranno le elezioni, l’Italia avrà a disposizione al Quirinale lo stesso garante che ha permesso negli ultimi anni al nostro paese di sterilizzare ogni forma di estremismo: non proprio briciole. La seconda ragione riguarda la consapevolezza che per ogni forza politica, anche quella più scalmanata, non sarà facile smantellare quello che è il vero asse portante dell’Italia del futuro: il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, piano da 220 miliardi di euro valido dal 2021 al 2027. Non sarà facile perché smantellare quel piano, che nessuna forza politica sembra essere intenzionata a scassare, significherebbe correre il rischio di perdere quattrini preziosi, debito buono come direbbe Draghi, per investire sul futuro dell’Italia (nota a margine: il governo per gli affari correnti, con il benestare finora di tutti i partiti, ha avviato a metà di questa settimana una procedura per trasformare la nuova Invitalia, quella guidata da Bernardo Mattarella, nipote del capo dello stato, nell’angelo custode dei mille comuni italiani impegnati nella messa a terra dei progetti collegati ai 40 miliardi di euro previsti dal Pnrr per le principali città italiane, e avere un meccanismo di monitoraggio e di sostegno capace di resistere al susseguirsi di governi non può che aiutare l’Italia ad avere binari più solidi). E non sara facile, poi, perché, ragione numero tre, smantellare il Pnrr, o non rispettare gli obiettivi, significherebbe anche altro: non avere i requisiti minimi richiesti dieci giorni fa dalla Bce per attivare lo scudo antispread in caso di necessità. 

 

Lo scudo antispread, ragione numero quattro, ha introdotto anche un elemento ulteriore di stabilità, che meriterebbe di essere ricordato a tutti i partiti desiderosi di governare il paese a colpi di pensioni anticipate: lo scudo della Bce, Bce che ha in pancia circa 550 miliardi di euro di debito pubblico, può essere attivato, in caso di necessità, solo a condizione che il paese che lo richiede abbia fatto tutti i compiti a casa (Pnrr) e solo a condizione che quel paese abbia di fronte a sé uno spread impazzito per ragioni legate al contesto internazionale e non per ragioni legate a scelte di politica interna. Dunque, sì, i partiti possono promettere mari e monti, ma un debito pubblico come quello italiano, sommato alle stringenti condizionalità previste nello scudo della Bce, sono un freno mica male all’eventuale irresponsabilità dei partiti: mica briciole, no? Accanto a tutto questo, poi, vi è un tema ulteriore, e importante, che trasferisce una certa fiducia sull’immagine dell’Italia del futuro. E quel tema è legato a una caratteristica non scontata di questa campagna elettorale. Dove il populismo non farà a meno di mostrare i suoi muscoli, certo. Dove l’irresponsabilità non farà a meno di essere declinata, ovvio. Dove i fantasmi del passato continueranno a fare capolino, chiaro. Ma dove, a differenza della campagna del 2018, nessuno tra i grandi partiti, neppure quelli più populisti, ha finora messo in discussione le principali coordinate del paese. Uscire dall’euro? Nulla. Uscire dall’Europa? Nulla. Puntare sui minibot? Nulla. Smantellare la Nato? Nulla. Avvicinare l’Italia più alla Russia che a Bruxelles? Nulla. Garanzie che l’Italia che uscirà dalle prossime elezioni sarà più forte, più credibile, più affidabile e più veloce di prima non ci sono. Ma garanzie che i binari dell’Italia, binari fatti di contratti, di vincoli, di impegni, siano in grado di non far deragliare il nostro paese ci sono. E tanto basta per permetterci di osservare la campagna elettorale con un briciolo di ottimismo in più rispetto all’orrore vissuto nell’inverno del 2018. Meno pieni poteri, più pieni doveri. La nuova stabilità, in fondo, passa tutta da qui.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.