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equilibri

Una crisi di governo da non drammatizzare

Claudio Cerasa

Dove vanno i grillini? Cosa vuole fare Draghi? Di cosa ha paura il Pd? Che idee ha Mattarella? Sei piccole verità per orientarsi nel pastrocchio di governo e per non essere pessimisti

Si fa presto a dire crisi. Giovedì prossimo, come ormai sapete, l’Italia capirà che forma prenderà il nannimorettismo del Movimento 5 stelle. Il tema è sempre lo stesso: mi si nota di più se voto la fiducia e me ne sto in disparte o se la fiducia non la voto per niente? Nell’attesa che l’ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, decida che strada far imboccare al suo malandato partito, potrebbe essere saggio mettere in fila qualche piccola verità utile a inquadrare alcuni non detti della fase politica che stiamo vivendo.

 

La prima verità è che la fragilità della maggioranza draghiana non nasce solo dai capricci del Movimento 5 stelle ma anche dai capricci di tutte quelle forze politiche che alla fine di gennaio hanno scelto di chiudere la strada del Quirinale a Mario Draghi sottovalutando l’esito che quella scelta avrebbe avuto sulla vita del governo. Il risultato è ciò che abbiamo di fronte oggi ed è un risultato solo ritardato dalla guerra in Ucraina: i partiti che si sono opposti al passaggio di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale (M5s e Lega) oggi sono gli stessi che tendono a indebolire il governo quando ne hanno occasione e le difficoltà incontrate alle urne da parte di quei partiti hanno contribuito a trasformare l’esecutivo nel terreno perfetto su cui scaricare le proprie frustrazioni.

 

La seconda verità, ormai sotto gli occhi di tutti, è che il Movimento 5 stelle ha capito che il suo unico spazio vitale è fuori dal governo. Nella maggioranza non tutti pensano che il M5s farà  questo passo già giovedì (non lo pensa il partito di Matteo Renzi, non lo pensa il partito di Luigi Di Maio) ma quando si cammina su un filo prima o poi da quel filo si cade e l’uscita del M5s dal governo non è più un tema legato al se ma è solo legato al come. Rocco Casalino, portavoce di  Giuseppe Conte, incrociato lunedì sera in via Cavour, a Roma, in monopattino, da chi scrive, ci ha confermato che votare la fiducia giovedì, per il M5s, è una missione impossibile, a meno che Draghi non si inventi qualcosa tra mercoledì e giovedì, e quel qualcosa ha tutta l’aria di somigliare molto a una qualche concessione sul Superbonus o sul salario minimo (fare concessioni al M5s senza farle passare per concessioni al M5s sapendo che se si fanno concessioni a un singolo partito tutti gli altri partiti poi busseranno alla porta del governo chiedendo una qualche concessione ulteriore).

 

La terza verità utile da mettere a fuoco riguarda una distanza politica che esiste tra la maggioranza di governo, il governo e il Quirinale. Mario Draghi sta dicendo da giorni ai suoi collaboratori che non ha alcuna intenzione di fare la fine di Mario Monti, ovverosia accettare di arrivare alla fine naturale della legislatura dopo aver perso una gamba della maggioranza, e la sua intenzione di farsi da parte, in caso di uscita del M5s dal governo, è reale. E’ quello che vorrebbe, ed è quello che vorrebbero anche molti azionisti di maggioranza del governo, ciascuno dei quali avrebbe un suo interesse ad andare a votare il prima possibile (il Pd, perché avrebbe una buona scusa per non allearsi con il M5s, perché avrebbe buon gioco a sfruttare le difficoltà dei populisti, perché avrebbe buon gioco a essere l’unico partito capace di interpretare l’agenda Draghi; la Lega, perché Salvini avrebbe l’opportunità di accorciare la sua agonia, il suo logoramento, e di sbarazzarsi facilmente delle sue opposizioni interne,  gestendo senza troppe difficoltà le liste elettorali).

 

Ma non è quello che invece vorrebbe il Quirinale, il capo dello stato, che pur sapendo che per come si stanno mettendo le cose non sarà facile andare a votare a maggio, com’era stato pianificato, sa anche quanto sia importante avere un governo nel pieno delle sue funzioni in una fase delicata come quella che stiamo attraversando: con una guerra in corso, una crisi economica alle porte, un’inflazione galoppante, con obiettivi del Pnrr stringenti da qui alla fine dell’anno. 

 

Dunque, sì, Draghi vorrebbe farsi da parte, in caso di crisi di governo, e i partiti di governo, a partire dal Pd, non avrebbero nulla in contrario a votare già in autunno, ma come spesso succede quando i parlamenti sono deboli e quando i partiti non sono forti alla fine dei conti il metronomo della stabilità che conta è quello che si trova al Quirinale e se Sergio Mattarella dovesse chiedere a Draghi (e al Pd, e alla Lega, e a Forza Italia) uno sforzo per andare avanti almeno fino all’inizio del prossimo anno quello sforzo verrebbe fatto (e se il M5s deciderà di rompere non lo farà perché scommette sullo scenario delle elezioni, ma lo farà perché scommette su uno scenario elettorale ancora relativamente lontano).

 

Alle quattro piccole verità ne andrebbero aggiunte delle altre. Una verità ulteriore, la quinta, riguarda uno scenario in cui il Pd, uscita o meno del M5s dal governo, dovrebbe iniziare a considerare: un alleato come Giuseppe Conte oggi è meglio perderlo che trovarlo e dover dividere i collegi  elettorali con il M5s alle prossime elezioni, se questa sarà la legge elettorale con cui si andrà a votare, potrebbe essere per il Pd un prezzo troppo alto da pagare, e presentarsi al voto da solo, al massimo con qualche partitino di centro, potrebbe essere l’unica scelta possibile per riaccarezzare un po’ della vecchia vocazione maggioritaria.

 

Un’altra verità, la sesta, è che per quanto sia politicamente essenziale la presenza del M5s al governo, un governo di unità nazionale funziona se l’unità è più ampia possibile, è anche vero che la presenza del M5s al governo, dal punto di vista della sostanza più che della forma, è una presenza divenuta più che inutile tossica: non c’è provvedimento del governo che non sia mediaticamente osteggiato dal M5s e non c’è idea del M5s che non sia divisiva per tutta la maggioranza di governo (il Pd non potrà mai ammetterlo, ma tranne che sui diritti e sull’immigrazione per il resto, su crescita, infrastrutture, politica industriale, ciò che lo  divide dalla Lega, oggi, è inferiore rispetto a ciò che lo divide dal M5s).

 

La crisi c’è, è nelle cose, forse è inevitabile, ma la crisi di fronte alla quale si trova oggi l’Italia sembra essere infinitamente meno grave rispetto ad alcune crisi passate, non per una questione di snobberia ma per una questione di binari: i partiti litigano, le coalizioni implodono, i leader battibeccano ma l’impressione è che il percorso dell’Italia, grazie ai vincoli, grazie all’Europa, grazie al Pnrr, grazie alle alleanze internazionali, grazie persino alla presenza di un’opposizione meno irresponsabile rispetto a quella di altri paesi europei, sia un percorso magnificamente segnato. Un percorso instabile, spesso incerto, a volte apparentemente ingovernabile, ma con una traiettoria certa: più vicino a Bruxelles che a Mosca, più vicino a Washington che a Pechino, più vicino all’Europa che ai suoi nemici, più vicino all’agenda Draghi che all’agenda dei suoi nemici. La crisi c’è, è nell’aria, ma la capacità dell’Italia di governare la sua instabilità non è mai apparsa così solida come oggi. E anche di fronte a un quasi patatrac di governo, e anche di fronte a leader politici incapaci di  intendere ciò che vogliono davvero, ragioni per non essere pessimisti ce ne sono.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.