L'intervista

A che punto è la rivoluzione digitale. Parla il ministro Vittorio Colao

"E vediamo di non fare più domande..."

Giuseppe De Filippi

Via i moduli, la carta, le attese, ma non solo: “Lo stato comincia a prendersi cura dei cittadini in quanto titolari di diritti”. Reti, servizi, cloud: come la digitalizzazione sta cambiando l’Italia. Chiacchierata a tutto campo con il ministro Colao

"La domanda, la domanda, il modulo”, ci dice il ministro per l’Innovazione tecnologica e la Transizione digitale Vittorio Colao, allungando le vocali, per rendere ancora più grottesca la descrizione dei tipici passaggi richiesti per ottenere qualcosa dallo stato, dagli uffici pubblici. Si sente che sta a metà tra la classica tirata antiburocratica e l’avvio di uno di quei terribili sermoni dei visionari del web, ma si trattiene, istintivamente, da entrambi i rischi. Il vaccino contro la verbosità e contro la fumosità dei disegnatori di scenari lo ha assunto in tanti anni di esperienza nelle aziende, quelle con i fondi e gli azionisti a tenerti d’occhio, dove ha imparato a ragionare per passaggi successivi e a confrontarsi sullo stato di avanzamento verso gli obiettivi fissati. Sa che il resto è fuffa, e davvero non c’è neanche bisogno di andarla a cercare, non c’è bisogno di abbellimenti o di arabeschi, perché il piano con cui si sta digitalizzando l’Italia è pieno di realizzazioni, di traguardi visibili, di cambiamenti.

 

Lasciar stare i toni da visionario del mondo nuovo significa che la comprensione della portata delle novità viene lasciata a chi le userà, a chi ne verrà avvantaggiato e vedrà, sì, la sua vita diventare più semplice, nei rapporti con l’amministrazione, con lo stato, con gli altri, e vedrà con quanta maggiore efficienza potrà affrontare le questioni da risolvere o scoprire nuove possibilità, e forse allora si ricorderà dell’impegno che ci ha messo questo ministro e questo governo. Alla fine di questa conversazione, accennato qualcosa sul suo futuro politico (inesistente se inteso come impegno elettorale o qualcosa del genere) e sul suo futuro personale, sorride, inclina un po’ il metro e novanta, e dice di augurarsi che “nel 2027 qualcuno magari mi offra un prosecco per ringraziarmi, perché ho contribuito a costruire un bell’impianto di lavoro e di vita collettiva, un sistema che funziona”.

 

Ma, appunto, vediamo come sta facendo a guadagnarselo questo prosecco. Proviamo a partire dalla sua vita precedente, quella di capo di aziende che hanno portato la straordinaria diffusione della telefonia mobile e dei servizi internet su smartphone in Italia. E’ stata anche una grande infrastrutturazione fatta da tutti gli utenti, perché quando pressoché tutti hanno in tasca un telefono intelligente e in grado di accedere alla rete i programmi di rafforzamento del digitale e la costruzione della grande piattaforma pubblica basata sull’identità digitale diventano molto più semplici da realizzare.

 

“Guardi – dice, cercando di relativizzare quella stagione – stiamo parlando solo di un pezzo dell’infrastruttura necessaria, poi ci sono i servizi, c’è il cloud. Nell’ultimo comitato per la transizione digitale abbiamo approvato l’architettura complessiva dei servizi, che è fatta di notifiche, di deleghe, di pagamenti, di attributi, tra cui quello che ha colpito l’immaginazione di tutti è la possibilità di avere la patente sul telefonino. Lo hanno chiesto in tanti e la risposta è certamente sì e sarà sempre di più così. La triade è fatta di reti, servizi e cloud. Io, nella mia vita precedente, ho fatto un pezzo di un pezzo di questo sistema triplice. Ma una parte molto utile, me ne sto accorgendo ora, di quella mia lunga esperienza nel settore delle telecomunicazioni è stata quella fatta lavorando a lungo in Africa e in India, dove mancano impianti e rete, e quindi il telefono mobile è diventato la infrastruttura dei servizi e a volte si trova che alcuni di essi sono più avanzati là dove non c’era prima una gestione amministrativa molto organizzata, con archivi e documenti cartacei. In India hanno un sistema biometrico di identificazione che va direttamente sul telefonino e poi gira su una piattaforma digitale, perché non avevano la carta d’identità, la cui distribuzione cartacea sarebbe stata una follia. Noi dovremmo ripensare le nostre opportunità di sviluppo sul digitale un po’ dimenticandoci l’esistente, la prassi, le abitudini, per fare qualche salto verso nuove soluzioni. Ad esempio, siamo abituati alla regola per cui la carta d’identità si ritira al comune e il passaporto in questura. Ma perché dovremmo continuare con queste rigidità? Ci sono mille altri modi più semplici per far arrivare al cittadino le cose invece di farlo muovere verso uffici e sottostare al rispetto di orari. Ci siamo abituati all’idea che per ottenere ciò che ci spetta in base a regole definite bisogna presentare la famosa domanda. Ma se lo stato sa che una persona è in una specifica situazione, ha una condizione abilitante, perché dovrebbe essere il cittadino a chiedere ciò che ha diritto invece di vedersi direttamente riconosciuto? Non faremo più chiedere il bonus celiaci, il bonus mamma, il bonus quel che volete, con quelle dichiarazioni un po’ ridicole in cui una persona prova di essere celiaca o di avere un bambino. Ma cosa dovrebbero provare? I fascicoli sanitari si possono collegare a quelli delle amministrazioni finanziarie e la partita si chiude ribaltando la logica per cui il cittadino deve chiedere e non si tratta solo di digitalizzare, perché altrimenti sarebbe solo una banale eliminazione della carta. Lo stato cambia e comincia a prendersi cura dei cittadini in quanto titolari di diritti. Sono tre i passaggi richiesti e cioè che tutti abbiano un cellulare in mano, che ci siano i servizi e che ci sia un cloud dove questo sistema gira. Se saldiamo questi tre passaggi abbiamo creato un’Italia bellissima e un’Europa altrettanto bella. E, guardi, con tutto il rispetto verso i nostri grandi partner internazionali, vediamo che negli Stati Uniti c’è una società dura oltre che, ora, tremendamente divisa al suo interno, e la società cinese è altrettanto dura e molto competitiva: be’, di fronte a queste condizioni nei paesi a maggiore sviluppo, l’Europa ha l’opportunità di creare un modello che può essere molto attraente, per tanta gente nel mondo, un luogo in cui crescere, studiare e lavorare e dove il rapporto tra stato e cittadino è fatto di collaborazione, semplicità, coesione, e tutto questo è possibile grazie alla tecnologia digitale. Questo davvero assomiglia a ciò che ho sempre fatto nella mia vita precedente e cioè costruire reti per aiutare i paesi a svilupparsi, ora si tratta di costruire servizi per aiutare l’Europa a essere, con le sue peculiarità, più coesa e più competitiva, usiamo la tecnologia per migliorare le politiche sociali, non dobbiamo temere che la tecnologia domini il sociale, è invece un grande aiuto, nei paesi emergenti si vede moltissimo”.

 


 Si riesce, a fatica, a mettere un punto al flusso di ragionamenti, tutti collegati, di Colao, per chiedere se, con questi cambiamenti, e con tutte le accortezze del caso, non si stia implicando un cambiamento dello stesso concetto di cittadinanza. “Sì, cambia, e forse si può anche ricreare un senso di appartenenza alla sfera pubblica, dalla quale potrebbe derivare anche un’inedita forma di gratitudine verso l’intervento statale”.

 


Gratitudine, però, è parola coraggiosa e merita qualche spiegazione. “Sì, allora, è del tutto giustificata la rabbia di chi fatica, o proprio non riesce, a sostenere la propria famiglia, ad arrivare a fine mese. Ma non è giustificata, non è fondata, la rabbia di chi contesta il nostro modello statale e dimentica che in Europa e in Italia c’è, per parlare del principale strumento di promozione sociale, un sistema che permette a tutti, davvero con pochi soldi, di accedere alla formazione universitaria o tecnica di altissimo livello, ma questo non lo valorizziamo. Poi, certo, se l’esperienza di iscriversi all’università è un disastro e dopo ci si imbatte in una burocrazia infernale… Stessa cosa con tutti i nostri civilissimi bonus sociali di vario tipo. Se ne rendiamo difficile la fruizione allora ci facciamo del male da soli e distruggiamo il valore di un modello da primato mondiale. Ma, da convinto europeista, sono sicuro che il nostro schema economico e sociale è vincente nel lungo termine. Dovremmo solo vendercelo un po’ meglio, diffondendo ovunque il paradigma per cui non è il cittadino che chiede ma è lo stato che dà. Senza essere ossessionati dai controlli, dalla caccia a chi si approfitta, perché con la digitalizzazione dei dati le verifiche ex post, ben mirate, sostituiranno la mole di adempimenti ex ante con cui danneggiamo l’efficienza di tutti i processi. Dobbiamo creare le piattaforme, dotarle di servizi, assicurarci che vengano usate solo per gli scopi previsti dalla legge, dopodiché io non ho problemi se qualche ufficio pubblico può incrociare i dati del mio bancomat con quelli del mio tenore di vita, ma facciano pure”.


Si può provare, a questo punto, a dare uno sguardo agli effetti politici di tutto questo. Perché sembra di sentire l’intenzione di andare, senza paura, a usare la digitalizzazione contro il populismo. E’ un programma interessante, ma che forse va un po’ spiegato e su questo terreno Colao va un po’ trascinato suo malgrado e si tiene abbastanza prudente. L’analisi semplificata che proponiamo è che la chimera della digitalizzazione è stata uno degli strumenti forti del populismo grillino e della straordinaria fascinazione casaleggiana e adesso potrebbe diventare, invece, un grande processo di rinnovamento del paese che ha anche l’effetto di stemperare proprio alcune forme di rabbia populista.

 

“Posso dire certamente che la digitalizzazione crea trasparenza, se in trenta giorni devo avere un permesso edilizio, sì o no, il termine temporale, affidato a un processo digitale, non può cambiare e non c’è carta che si perde o pratica che non si trova più. E se dovevo costruire in un certo modo e invece ho costruito in un altro, c’è un drone che controlla e mi trovano subito. Si vedrà che è meglio vivere in un mondo governato da regole chiare, basato sulla fiducia reciproca e sulla trasparenza dei dati, anziché in un sistema arcigno, in cui tutto è basato su concessioni da ottenere a fatica, su una griglia di controlli e di sospetti, sullo stillicidio delle informazioni. Di fronte a questa prospettiva affiora anche un altro tipo di populismo, in cui si dice che questo sarebbe uno stato cattivo, una situazione alla cinese, in cui ti vengono a spiare. Invece dobbiamo accettare l’idea che tutti questi sviluppi tecnologici, se ben governati, aprono possibilità con cui si può rifondare, su basi migliori, il patto tra stato e cittadino. Nessuno ti spia, ma si consente alla struttura pubblica di verificare, relativamente a uno scopo ben definito, se è vero che guadagni certe somme, se è vero che hai fatto la casa in un certo modo, se è vero che non hai precedenti penali. Mi ricordo che quando il presidente della Repubblica mi ha dato il cavalierato del lavoro e io ero residente in Inghilterra mi chiesero i carichi pendenti e la buona condotta, certificazioni che lì non esistevano, e quando sono andato a cercare di ottenerli tutti notavano quanto fosse insensato uno stato che mentre ti dà un’onorificenza non sa, per conto suo, se sei una persona onesta e priva di procedimenti a carico, e alla fine c’è voluta l’intelligenza della nostra ambasciata a Londra per risolvere. Insomma, ripeto, non si tratta di spiare, ma di non chiedere più ai cittadini cose che lo stato sa già”.

 


Il cashback può essere discusso e criticato nel merito ma è stato una prova generale di sistema automatico, in cui lo stato non chiede altre certificazioni e dà ciò che deve dare senza bisogno di presentare domande. “Sì, con alcuni ministri stiamo pensando di utilizzare quella piattaforma per altri scopi. E stiamo pensando anche a come utilizzare il digitale per la regolarizzazione dei lavori occasionali, temporanei, informali. Si era tentato col famoso voucher, ma in maniera complicata. Ora abbiamo piattaforme e la App IO, conosciamo i codici Inps, e l’istituto ha fatto un ottimo lavoro di digitalizzazione, stiamo cominciando a pensare a un modo per far emergere il lavoro nero e rendere semplice l’esperienza dell’impiego occasionale nelle forme stabilite dalla legge, anche di fronte ad aggiustamenti o cambiamenti, perché uno dei punti di forza del digitale è l’adattabilità. Se la soglia di reddito ammessa per i lavori occasionali dovesse cambiare, allora cambierà immediatamente l’operatività della piattaforma. Il digitale dà tantissima flessibilità di policy e consente anche di verificare sul campo l’efficacia delle scelte, se vedo che uno strumento non funziona posso cambiarlo grazie al flusso di dati in tempo reale”.

 


Vi confrontate con l’Agenzia delle entrate? “Con il direttore Ernesto Ruffini siamo allineati totalmente, abbiamo una visione assolutamente uguale”.
Le altre amministrazioni si fanno sentire? Siete voi a dare indicazioni o sono loro a chiedere che si proceda come vogliono per la digitalizzazione? “Questa è una questione che dobbiamo un po’ dibattere. Noi lavoriamo bene con vari ministeri, ad esempio nella gestione dei trasporti, con il Mims, dicevo prima dei temi del lavoro su cui abbiamo un dialogo costante con Andrea Orlando, per altri aspetti collaboriamo con Luciana Lamorgese. Ma mi chiedo se le cose stanno andando bene perché c’è un governo Draghi, che ha connotazioni emergenziali, e ci sono io che faccio solo questo, con un mandato chiaro, ma, in futuro, basterà definire le reciproche competenze? Ci sono alcuni governi che stanno cominciando a dare al responsabile della digitalizzazione poteri di intervento sulle amministrazioni, ad esempio lo ha fatto il governo greco. Ora noi siamo in un modello intermedio tra la completa volontarietà che c’era prima e la facoltà di decidere sulle procedure di tutta la macchina statale che c’è in Grecia. Ma io stesso sono un unicum in Europa, non siamo in tanti, a parte il greco, ad avere questo ruolo e questo portafoglio, ma un equilibrio andrà trovato nel nostro e in altri paesi europei: ce n’è ancora qualcuno in cui le competenze sono spezzettate e in cui non c’è una linea forte per l’unificazione delle procedure digitali”.


Quanto avete contribuito a cogliere, per ora, gli obiettivi del Pnrr? “Noi per la nostra parte e molto in collaborazione con il Miur per alcuni aspetti, con il Mise per altri e con Renato Brunetta per la parte della Pubblica amministrazione”.


Brunetta dà tanti consigli, è incontenibile? “Lo ammiro, è un vulcano, ha un’età interiore da ventiduenne e uno straordinario entusiasmo per tutto. All’ultimo comitato mi ha colpito con un commento quasi da marketing digitale molto giusto. Mentre noi stavamo ragionando sulla digitalizzazione delle multe e degli atti giudiziari lui ci ha fermati un attimo per dire che avremmo dovuto pensare a digitalizzare anche qualcosa che sia percepito in modo positivo, se no, diceva, mandando ai cittadini solo le cattive notizie il digitale si fa una brutta fama. Gli ho dato ragione. E credo che sia proprio un criterio generale, perché dobbiamo rendere positiva e attrattiva tutta la percezione che c’è della digitalizzazione, magari evitando la frammentazione regionale, perché serve un’architettura tecnologica impostata da un’unica autorità nazionale. A parole dicono tutti di sì, ma poi cominciano le resistenze. Quando sento che vogliamo potenziare i data center costruiti in zone sismiche mi prende un po’ male, intanto perché non servono tanti data center tutti troppo piccoli e poi perché rafforzare quelli già a rischio è una follia. Oppure i casi di quelle regioni che non vogliono passare i dati al resto del paese e magari sono gli stessi che usano Google o certi sistemi di posta elettronica e poi fermano il trasferimento dati verso luoghi sicuri e garantiti dallo stato. Difendere il fortino regionale o locale proprio non ha senso, ma è un tema che va affrontato”.

 
E poi c’è il mondo esterno all’amministrazione e al governo ma dal quale bisogna ottenere impegni e realizzazioni certe. La partita delle grandi reti è in pieno svolgimento e Colao, che guarda con favore alle ultime decisioni dei grandi protagonisti pubblici e privati in tema, sembra fiducioso. “Se quello che gli operatori ci hanno dichiarato – dice – viene fatto, e noi stiamo già in fase di monitoraggio, cioè non stiamo semplicemente ad aspettare, allora noi ci troveremo al 2027 con una rete al 94 per cento di fibra e 6 per cento wireless, con un 5G pervasivo in Italia, al 99 per cento della popolazione, e con un sistema cloud misto, cosa molto importante, fatto di quello commerciale e di quello statale, con forti garanzie di sicurezza, ai migliori livelli europei. Ripeto: se ciò che nelle varie gare e nelle varie assunzioni di impegni è stato dichiarato viene rispettato, ma se anche ci fosse qualche caso di rispetto parziale non saremmo più i migliori in Europa ma saremmo comunque nel plotone di testa”.


 Un po’ travolti da questo ottimismo, che poggia anche sulle grandi risorse portate dal Pnrr, viene voglia di guardare più avanti, perché la digitalizzazione trasforma tutto e forse avremo a che fare con un paese completamente diverso. Colao non si tira indietro, anzi, e allarga il tema. “La prima questione – risponde – è quella della sostenibilità territoriale, perché noi dobbiamo avere ospedali, scuole, luoghi di lavori, centri di turismo e di cultura, diffusi nel paese e non più concentrati. Abbiamo un territorio unico e affascinante, ma dobbiamo usarlo tutto e con intelligenza. Noi abbiamo parlato, ad esempio, con le amministrazioni locali per usare il digitale come strumento che permetta di gestire i flussi di auto e quelli turistici nel modo ottimale. Sono grandi esercizi di programmazione, non imposta dall’alto ma generata da un sistema che si auto-ottimizza e ci permette di usare il territorio e la bellezza dell’Italia al meglio, in maniera distribuita e sostenibile, e questo si può fare solo avendo le informazioni. Oppure, noi stiamo lavorando, a partire dal Pnrr, sull’acquisto di apparecchiature sanitarie di altissimo costo e di altissima qualità, macchine che però diventano pienamente efficienti se lavorano 20 ore al giorno e allora la gestione dei flussi e delle informazioni diventa essenziale. Insomma, intendiamo arrivare a usare, se mi passate la parola, l’Italia al meglio”.


E tutto questo, nell’analisi di Colao, si lega anche alla questione demografica e alla condizione di un paese ancora molto dinamico economicamente ma declinante nella sua popolazione. “Rischiamo, come società, di fare la fine della rana felice di stare nell’acqua calda e che poi finisce bollita. E’ un tema che un governo con un mandato di lungo termine dovrebbe affrontare strategicamente. Che non vuol dire solo dividersi sull’immigrazione sì o no. Però siamo strutturalmente in una situazione di saldo negativo annuale dei residenti. Che comporta per l’Italia un consistente spopolamento da qui ai prossimi decenni. Si perde ricchezza e si crea un mix di spesa disastroso, con la piramide demografica che va verso l’alto e la società che invecchia, mentre i giovani migliori saranno ancora più incentivati ad andar via. Allora bisogna ragionare e di fronte a trend demografici che non si possono invertire rapidamente bisogna cominciare ad attrarre giovani, persone preparate. Perché il nostro paese ha una straordinaria ricchezza nel dare opportunità, di cui non ci accorgiamo. Abbiamo un ottimo e poco costoso sistema formativo, con punte di eccellenza nell’università, abbiamo una sanità che in almeno sette regioni è ai massimi livelli europei, potremmo farne quasi un tema di marketing demografico. Invece di fare la rana che bolle dovremmo metterci ad attirare persone attive, che vengano qui a studiare, a lavorare, a fare impresa, in attesa che i trend di natalità si invertano”.


E resta, però, il mistero della vitalità economica. “Si spiega con tanti fattori, certamente le imprese italiane non hanno sprecato il tempo della pandemia, hanno innovato i processi e investito, vedo casi nelle aziende di digitalizzazione fai da te, so che si sarebbe potuto fare meglio, ma le ricadute positive ci sono comunque. E si vede la ripresa esplosiva del turismo, con anche qualche caso in cui rompere un po’ le regole, sugli orari o sugli spazi esterni dei locali o sui servizi vendibili, non ha fatto male, anzi. C’è certamente la pressione dei prezzi delle materie prime e ancora se ne deve vedere il trasferimento sui mercati finali di consumo e sarà il tema dell’autunno. Quindi aspetterei a cantare vittoria”.


E c’è che in Italia si guadagna poco, il lavoro, che vorremmo attrarre, è svalutato. “Ho provato a dirlo, senza complimenti, da ultimo ad Assolombarda. La questione esiste. Mi capita di trovarmi con imprenditori che lamentano di non trovare persone da inserire nelle aziende, a partire dai classici ingegneri. Allora chiedo, ma dove li vai a cercare? Sei andato un po’ fuori, almeno a Monaco di Baviera? E allora mi rispondono che non ci riescono, perché c’è la lingua o chissà che, e non si rendono conto che se non si è in grado di fare i colloqui in inglese non si può fare impresa oggi. Ma soprattutto, sul mercato mondiale del lavoro, si compete con aziende che danno un percorso di carriera. E allora mi dicono che quelli vogliono essere promossi dirigenti entro sei anni. E hanno ragione, dico io. Perché non è questione solo di livello retributivo, si tratta di modernizzare i rapporti di lavoro. E vale anche per i non laureati ma con preparazioni specifiche, per i quali vale di più la necessità di rendere più adeguate le retribuzioni. Ancora conta la digitalizzazione, perché con più produttività, portata dall’innovazione, si può anche dare di più ai lavoratori”.
Beppe Grillo dà lezioni di digitalizzazione a tutto il mondo, qui al ministero si fa sentire? “Sì, non recentemente ma qualche volta gli ho parlato. E’ molto visionario e queste sue visioni vanno un po’messe dentro a qualche quadro più ordinato, ma, sì, ha idee. Abbiamo parlato molto di dati, della loro origine e della loro proprietà. Se sono dell’individuo o sono di chi li raccoglie. Un grande tema di cui parla l’Europa e su si sta decidendo con il data act”.


 E Draghi ha una sua interpretazione della digitalizzazione? “Draghi capisce gli obiettivi, non entra nei dettagli, ma si concentra sugli obiettivi. Posso dire che mi ha più che raddoppiato le risorse che avevo in base alla precedente bozza di Pnrr. Ho chiesto cento persone che arrivassero da esperienze esterne alla Pubblica amministrazione e, con determinazione, me le ha fatte avere, Adoro lavorare con lui, è uno che ti chiede dove vuoi andare e come ci vai e poi ti lascia fare e se hai bisogno di aiuto lo chiami. E’ un uomo di visione e di obiettivi”.


Enrico Letta ha una visione della digitalizzazione, idee da proporre? “Enrico da sempre, fin da quando eravamo due giovani di bottega, è stato molto attivo in questo campo. Io incontro ogni sei mesi circa tutti i capi dei partiti, poi c’è qualcuno più interessato e qualcuno che delega, e posso dire che Enrico è uno di quelli che ci mette proprio una passione personale sulla trasformazione digitale del paese”.


E capita anche di parlare di aziende, di struttura produttiva del paese. “Credo che si debba un po’ smettere di credere alla favola che piccolo è bello nel mondo aziendale, perché quando hai bisogno di investimenti e di opportunità per far crescere chi lavora, allora ti servono dimensioni adeguate. Anche per potersi permettere gli errori che fanno crescere, perché per 10 progetti che riescono ce ne sono altrettanti che falliscono, ma chi non ha le spalle larghe non può permettersi di sbagliare. Adesso tutti esaltiamo Elon Musk, dicendo che è il genio dello spazio, ma prima lo prendevamo in giro perché gli esplodevano i razzi. Ecco, noi avremmo bisogno di aziende abbastanza grandi per poter anche sbagliare. La soluzione può stare nelle aggregazioni, anche approfittando dei passaggi generazionali che spesso determinano mancanza di progettualità. Non dovremmo scandalizzarci o urlare al patriottismo quando arrivano fondi esteri che sanno, invece, gestire questi processi di aggregazione”.


 Allora vediamo se, a sua volta, ha qualcosa da suggerire al collega Brunetta nel suo campo. “Riconosco il grande impegno di Renato, vedo, forse come questione di fondo, tuttora una preminenza assoluta della cultura giuridica, del diritto amministrativo, nella selezione per gli uffici pubblici. E vorrei immaginare l’istituzione di un ruolo speciale, con persone dotate di competenze tecniche ed economiche, anche con contratti a termine, per portare rapidamente le forme di preparazione giuste per i cambiamenti cui andiamo incontro. Particolarmente ne avrebbero bisogno i comuni. Perché finora quel po’ di credito che ci siamo meritati in questo ministero e con questo governo lo abbiamo perché siamo riusciti a realizzare in 12 mesi ciò che tutti pensavano avremmo fatto almeno nel doppio del tempo e poi perché stiamo dando alle amministrazioni locali, in modo facile, il sistema di prenotazione delle risorse. In entrambi i casi posso dire che abbiamo usato software commerciali. Ma chi volete che porti questo modo di operare nello stato se non lo fanno persone che arrivano dall’esterno? In ogni caso l’obiettivo deve essere la valorizzazione del lavoro anche nei passaggi tra pubblico e privato, per fare sì che anche chi esce dallo stato sia valutato nel mercato del lavoro privato, perché la mobilità è un bene”.
E lei, che di mobilità ne ha usata tanta, dove si vede tra qualche mese? “Tra qualche mese mi vedo qua, al ministero”.


Allora facciamo tra un anno. “Tra un anno mi vedo ad allenarmi in bicicletta, finalmente potrò fare più ore di pedalata e ambire a prestazioni migliori, e poi vedremo, questa è una bella esperienza, noi siamo ministri tecnici e ne siamo consci, io ho rapporti politici con tutta la maggioranza e con l’opposizione, ma so di non essere stato eletto, di non aver fatto campagna elettorale, di non rappresentare una base. Ho una missione tecnica e non intendo mischiare le cose. Mi sono sempre considerato una risorsa a disposizione del pubblico, del privato, dell’Italia e del mercato internazionale. Non ho mai pianificato niente. Quando Draghi mi chiamato quel venerdì stavo in hamburgeria a mangiare con gli amici. Ho la fortuna di avere un’età e competenze per cui da qualche parte andrò. Ecco, con tutti gli allenamenti non mi vedo nella nazionale ciclisti”.