(foto di Ansa)

La gara elettorale

Chi prende il nord prende anche di più. La nuova sfida a tre con FdI

Dario Di Vico

La sorpresa del partito di Meloni: non più statalista e “romano”. L’altra Lega di governo e il Pd di ceti dirigenti e pensionati

Seppur con tutti i caveat legati al valore relativo di un voto amministrativo con le elezioni comunali di domenica scorsa, si va delineando nel nord uno scenario inedito, quello di una competizione politico-elettorale a tre punte. Il partito Fratelli d’Italia che ha per la prima volta patrimonializzato i consensi che i sondaggi gli accordavano, la Lega che invece ha dilapidato parte del suo ricco gruzzolo e il Pd che ha visto rafforzare le sue posizioni in alcune città-chiave. Da qui, per l’appunto, una gara a tre per conquistare i maggiori consensi nei territori che sono i forzieri del pil italiano, territori che hanno visto crescere esponenzialmente, grazie alle filiere, le relazioni tra di loro e che negli anni del Covid hanno saputo addirittura rafforzare i legami con il capitalismo renano e le sue catene del valore.

 

E di conseguenza chi prende il nord porta a casa il valore aritmetico dei voti delle urne ma anche un dividendo di reputazione internazionale che non va certo sottovalutato. La novità assoluta è sicuramente rappresentata dal partito di Giorgia Meloni. Già in una rilevazione stratificata per ceti sociali, l’Ipsos nel novembre scorso aveva messo in luce una cosa tutt’altro che scontata, ovvero che i consensi di Fratelli d’Italia al nord seguissero una linea di espansione sociale simile a quella che aveva caratterizzato in epoca diversa i successi di Forza Italia e della vecchia Lega nord.

 

Artigiani, lavoro autonomo, piccola imprenditoria la cui agenda non prevede più l’uscita dall’euro (come nel primo Salvini) e che è invece riconducibile ai temi classici di riduzione delle tasse, semplificazione burocratica, critica delle politiche assistenziali. Ma, è l’obiezione che viene in mente subito, Meloni non era l’erede di una tradizione politico-economica che ha sempre fatto a pugni con l’agenda delle Pmi? Non era, almeno nella fase iniziale della sua ascesa, un partito statalista e di conseguenza capace di attirare soprattutto i voti del pubblico impiego e dei ceti più legati alle erogazioni pubbliche? In partenza forse sì, ma successivamente si è generata una metamorfosi e oggi agli occhi dei ceti produttivi del nord quello che era un partito “romano” si è accreditato diversamente. La “Pancia del paese” lo ha battezzato. E del resto era capitato, a geografie invertite, qualcosa del genere con la rapidissima ascesa di Salvini a sud di Roma nonostante tutto ciò che in passato il leader milanese aveva detto dei meridionali.

 

In questa chiave non desta molta sorpresa, per ora, la mancanza in Fratelli d’Italia di figure intermedie che in qualche modo rappresentino anche plasticamente i ceti produttivi. Qualche eccezione però c’è: l’assessore veneto Elena Donazzan, molto attiva nel visitare le aziende del nord-est e nel costruire legami con l’imprenditoria votata all’export, e sicuramente Guido Crosetto, piemontese per altro, che può far valere la sua perfetta conoscenza dei business della difesa e dell’energia. Aggiungiamo anche che Giorgia Meloni ha scelto Milano come sede della sua convention ed è stata la prima politica di centrodestra a sedersi in prima fila alla recente assemblea di Assolombarda (Berlusconi e Salvini non c’erano) ed è stata anche la prima ad arrivare all’inaugurazione a Rho del Salone del Mobile della settimana scorsa. Nell’arsenale elettorale di Fratelli d’Italia poi non va dimenticato il corteggiamento nei confronti di Giulio Tremonti, che negli anni d’oro del leghismo bossiano era stato senza ombra di dubbio il rappresentante politico delle istanze del popolo delle partite Iva e non solo. E’ giornalisticamente comodo dire che tutti questi input si siano sommati d’incanto e abbiano permesso a FdI di superare la Lega in molti comuni settentrionali, ma per ora è l’unica traccia di cui disponiamo.

 

Quanto alle dinamiche elettorali stricto sensu si può dire che i flussi interni al centrodestra sembrano per ora a somma zero, non hanno portato alla coalizione nuovi consensi ma dimostrano che almeno per l’elettorato del nord i tre partiti (FdI, Lega e Forza Italia) sono dei vasi comunicanti. L’agenda rimane la stessa, il voto può cambiare e premiare quello che appare il cavallo più in forma. Magari perché si spostano piccoli potentati locali, perché qualche collettore locale di voti individua in Meloni un dispenser di candidature più generoso rispetto alla Lega anche solo perché la prima deve allargare la cinghia e i secondi, invece, stringerla. E’ troppo presto per saperlo ma sarà interessante capire cosa è successo al voto operaio, che vedeva a novembre ’21 nettamente in testa il partito di Salvini con percentuali incredibili (secondo l’Ipsos 27,8 per cento, ovvero più del doppio di tutte le sinistre sommate).

 

Si può sostenere che la perdita di voti da parte della Lega al nord sia un effetto del calo di credibilità di Matteo Salvini?  Si può aggiungere che i governisti del partito, che pure hanno contrastato il leader su molti dossier, alla fine hanno pagato in solido sui loro territori il costo delle piroette del Capitano? Anche in questo caso diciamo che appare l’interpretazione maggiormente accreditata ma se si scava più in profondità emergono diverse altre contraddizioni. I leghisti lombardi alla Giorgetti e i veneti dello “Zaiastan”, ad esempio, non usano ormai lo stesso vocabolario sulle questioni dello sviluppo economico.

 

I primi tendono a rispecchiare un orientamento più favorevole alle aziende medio-grandi, parlano di filiere e di attrazione degli investimenti stranieri, guardano con attenzione e malcelata invidia alle politiche industriali alla francese (versione Bruno Le Maire o Thierry Breton), i veneti invece sono fermi al piccolo è bello, alla ninna nanna delle virtù del territorio, l’unica politica industriale che concepiscono è quella del Prosecco e odiano la parola “meritocrazia” perché troppo americana. Non hanno letto il filosofo Michael Sandel ma lo condividono. E così capita che la regione Lombardia dialoghi sulle filiere industriali più facilmente con l’Emilia rossa che con il Veneto bianco. Poi se parliamo di politica sangue-e-merda c’è da ricordare come da tempo vada avanti un braccio di ferro nemmeno tanto sotterraneo tra Salvini e Zaia, tra il potere del leader e lo straordinario consenso territoriale del governatore. Le scoppole venete del leghismo nel primo turno delle amministrative hanno anche questa matrice.

 

A Padova Salvini ha fortissimamente voluto candidare il confindustriale Francesco Peghin che è stato sepolto dalla valanga di voti indirizzatisi sul suo concorrente Sergio Giordani, che grazie alla ripetizione ossessiva dell’indolore jingle “io amo Padova” si sarebbe giovato anche di simpatie leghiste in libera uscita. A Verona Zaia ha sostenuto Federico Sboarina per allontanare il fantasma di Flavio Tosi con il risultato nel primo turno di favorire il successo parziale dell’outsider Damiano Tommasi. La zaiologia più avvertita, scienza politica di territorio molto in voga visto che siamo già al terzo mandato, sostiene che Luca il Grande riesca a coagulare su di sé montagne di voti ma non abbia la bacchetta magica per trasferire lo stesso consenso su altri candidati. Insomma non sarebbe un kingmaker, a cominciare da uno straordinario inciampo che lo ha visto sbagliare cavallo – per la cronaca Piero Garbellotto – qualche tempo fa in quel di Conegliano. La conclusione che si può trarre è che la somma di queste imperfezioni abbia nuociuto alla Lega perché quantomeno ha generato un combinato disposto con le mattane di un Salvini che dalla citofonata di Bologna in poi ha perso il suo tocco magico.

 

Arriviamo al Pd che fatica a tenere assieme la sua idea di campo largo ma che al nord ne ha risentito molto meno per la scarsa influenza dei 5 stelle, che pure in passato avevano conquistato i comuni di Parma e Torino e oggi appaiono totalmente fuorigioco. Non sono in linea con l’antropologia dell’elettorato del nord e portarli a bordo alla fine crea al Pd più costi che benefici. Lo schema che è risultato vincente domenica scorsa è Pd più liste civiche e questa formula ha permesso a Enrico Letta di drenare anche il voto della sinistra liberal. Ma il civismo, per dirla alla Bersani, è un fattore che conta solo nelle comunali e già nelle politiche si annulla. Di conseguenza il Pd non può pensare che il voto di domenica sia immediatamente traducibile in un cavalcata vincente sulla regione Lombardia, per fare l’esempio più vicino nel tempo.

 

Detto questo se prendiamo il tracciato dell’autostrada A4 – il simbolo del nord industriale per il numero incredibile dei Tir che la percorrono – troviamo sindaci dem a Torino, Milano, Lodi, Bergamo, Brescia, probabilmente Verona e Padova. Al centrodestra restano solo Novara, Vicenza e Trieste. Se poi ripeschiamo l’indagine Ipsos di novembre, possiamo dire che dal punto di vista della composizione sociale il voto Pd è fatto di un mix inedito, ceti dirigenti più pensionati. E’ possibile che il voto di domenica si sia basato proprio su questa formula che sembrerebbe calzare a pennello alle ricche città della A4 e alla capacità del partito di attirare figure che vengono dal settore privato come Beppe Sala, Giorgio Gori e lo stesso Giordani.

 

Più ci si allontana dal tessuto urbano più i consensi del Pd si diluiscono (anche se in questa tornata in un paio di casi il partito ha vinto anche nella Bergamasca) perché entra in gioco un potente fattore antropologico, non solo italiano, come la divaricazione città-campagna. Se pensiamo, per esempio, alla transizione dal motore endotermico all’elettrico, nelle città le scelte di Bruxelles incontrano un favore sicuramente superiore a quello che si potrà riscontrare nei centri minori della Motor Valley emiliana o nella prima cintura torinese. E la stessa considerazione vale per tutta una serie di issue fortemente sentite dai metropolitani cosmopoliti, si pensi al salutismo, e altrettanto decisamente snobbate nelle province che fanno della Lombardia la prima regione italiana per produzione agricola. Secondo il sindaco di Bergamo Gori la contraddizione città-campagna si può sintetizzare con l’idea che gli abitanti delle città siano “più allenati al cambiamento” di quelli dei centri minori, i primi scelgono pur con tutte le contraddizioni di questo mondo il Pd e i secondi invece puntano sul leader del momento, da Salvini a Meloni, che in qualche modo prometta di proteggerli dall’innovazione. E il fatto che Matteo Renzi avesse preso a suo tempo il 40 per cento in Val Brembana può suonare come un’ulteriore conferma di questa regola aurea. Puntare sul cavallo più in forma.