Zelensky chiede nuove armi all'Italia (e all'Europa). Tra Roma e Kyiv ballano 400 milioni

Valerio Valentini

I diplomatici ucraini mostrano grafici secondo cui Roma ha inviato solo 150 milioni di armamenti. Ma se si aggiunge la parte secretata, il conto sale a oltre mezzo miliardo. Il vicepresidente della Rada in visita alla Camera giovedì con le richieste del ministro Kuleba. I colloqui tra Draghi e Macron, l'impegno di Guerini per il vertice Nato di Madrid

L’inghippo, pare, sta tutto in un grafico. O, quantomeno, molti dei malintesi passano da lì, se perfino il ministero degli Esteri ucraino è a quella tabella che si rifà, per sollecitare gli europei alla risolutezza, e se questa pressione diplomatica la esercita soprattutto su Francia, Italia e Germania. “Messi insiemi, questi tre che sono i principali stati membri dell’Ue, ci hanno donato meno armi rispetto alla sola Polonia”, insistono a Kyiv. Lo fanno sulla base di un’analisi prodotta dal Kiel Institute for the World Economy, un centro studi tedesco che ha da poco aggiornato la classifica dei principali donatori di aiuti militari all’Ucraina nel periodo tra il 24 febbraio e il 10 maggio. E da quella graduatoria l’Italia risulta avere contributo per soli 150 milioni in armamenti e munizioni, undicesima dietro non solo America e Gran Bretagna, ma anche dietro Estonia, Norvegia, Lettonia.

Dato contestato, in realtà, dai nostri diplomatici, e qui sta l’inghippo, che ci tengono a far notare alla controparte ucraina che quella graduatoria tiene conto solo del materiale non coperto da segreto, e che se invece si considerasse il totale, il contributo effettivo dell’Italia salirebbe a ben più di mezzo miliardo di euro. Una differenza di quasi quattrocento milioni in cui ci rientrano anche i blindati donati per il trasporto delle truppe (i Lince prodotti dalla Iveco) e i vari obici.

E questo, finora. Perché nuovi invii di armi sono considerati inevitabili, dal governo, anche se i tempi e i dettagli restano da definire. Così come la composizione dei nuovi carichi. Ci sarà da risolvere, cioè, il rebus che riguarda i semoventi M109: si tratta di almeno una mezza dozzina di cingolati, alquanto vetusti, la cui efficienza reale andrebbe però verificata bene, prima di spedirli a Kyiv lungo una tratta che passerebbe da Germania e Polonia. Il tutto, ovviamente, sotto il coordinamento Nato.  

E però gli ucraini scalpitano, comprensibilmente. La loro resistenza all’invasore, il loro sacrificio, non ammette titubanze. “Il tempo degli aiuti è ieri”, ripete nei suoi scambi diplomatici Dmytro Kuleba, ministro degli Esteri di Kyiv. Lo ha fatto anche Ruslan Stefanchuk, il presidente della Rada che ieri è stato ricevuto dal Parlamento europeo e, nei colloqui riservati coi deputati che rappresentavano Roma, Parigi e Berlino. E non ha avuto problemi a lodare i francesi per i loro cannoni Caesar da 155 millimetri, e a sottolineare invece quell’inspiegabile ritardo con cui i carri Leopard tedeschi stanno percorrendo la via verso il Donbas. Quanto all’Italia, giovedì prossimo sarà Oleksandr Kornienko, vicepresidente della Rada, a fare visita a Roberto Fico. E  sarà, quella, l’occasione di un nuovo confronto sul tema. 

L’ultimo, era stato alquanto eloquente. Era il 26 maggio quando le commissioni Esteri e Affari europei della Camera ospitarono, in videoconferenza, alcuni membri del parlamento di Kyiv. E il loro capodelegazione, Oleksander Merezhko, non esitò a indicare nella lentezza e nella scarsità delle forniture militari “il problema numero uno” su cui l’Ucraina si aspetta una maggiore risolutezza da parte europea. “La richiesta purtroppo resta ancora attualissima, perché il nostro esercito ha un estremo bisogno di sostegno contro le forze russe”, ci dice ora il deputato ucraino, facendo notare come, a seguito di quell’appuntamento, “non ci siano stati grossi riscontri da parte italiana”. L’elenco, in ogni caso, resta lo stesso: “Lanciarazzi a lunga gittata Mlrs e Himars, carri armati, aerei militari, mezzi per il trasporto truppe, missili anti nave”, scandisce Merezhko, col tono di chi ha mandato quelle sigle a memoria.

E dunque si capisce anche da qui la fermezza che Mario Draghi, e insieme a lui Lorenzo Guerini, mostrano nei discorsi che preludono al dibattito in Aula del 21 giugno, quello che avverrà alla vigilia del Consiglio europeo. Il presidente del Consiglio ha intenzione di continuare a intestarsi la battaglia per il riconoscimento dello status di candidato all’Ucraina, pur consapevole di ritrovarsi solo tra i grandi stati membri, in vista del dibattito a Bruxelles con gli altri capi di stato e di governo dell’Unione. Lo ha ribadito ieri sera, durante la cena all’Eliseo, anche a Emmanuel Macron, che resta però assai scettico sulla proposta.  Ma è un posizionamento non solo simbolico, per Draghi: consente infatti all’Italia di mostrarsi come il più atlantico tra i paesi europei, e al tempo stesso di rinnovare le ragioni dell’Europa all’interno della Nato. 

Che invece si riunirà, pochi giorni dopo, a Madrid. L’ultima volta, nel vertice di Ramstein, Guerini incassò i complimenti ufficiali del capo del Pentagono, Lloyd Austin. Vorrebbe non deludere le aspettative neppure stavolta. Poi, all’indomani del summit atlantico, si provvederà a ridefinire anche i nuovi impegni degli alleati per sostenere la resistenza ucraina. Fino ad allora, meglio evitare inghippi.

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.