rassegnati e speranzosi

Sullo stato della democrazia, nel mondo e in Italia

Sabino Cassese

Scarsa partecipazione elettorale, crisi dei partiti, derive illiberali da un lato. Progresso,  benessere, società aperta dall’altro. Fragile o robusta: come sta la nostra forma di governo? Un dialogo tra rassegnazione e speranza

La democrazia italiana è robusta o fragile? Qual è il suo stato di salute? Se è vero che l’Occidente è democratico e l’Oriente autocratico, quali sono le peculiarità della democrazia italiana e quali elementi essa ha in comune con gli altri paesi dell’Occidente? Se la democrazia italiana è più fragile delle altre, c’è la possibilità di rafforzarla, operando dall’esterno? Sentiamo le opinioni di un rassegnato e di uno speranzoso.

 

Rassegnato. In tutte le democrazie c’è sempre minore partecipazione elettorale. I partiti sono in crisi e lo sono anche le coalizioni elettorali. Prima la pandemia, poi la guerra hanno dimostrato che non ci si può perdere in discussioni interminabili e che c’è bisogno di maggiore autorità al potere. Bisogna rassegnarsi all’inevitabile declino della democrazia.

 

Speranzoso. Questo è un errore, perché è ingenuo pensare alla democrazia nei termini della definizione che ne dette nell’Ottocento il presidente americano Lincoln, come governo del popolo, da parte del popolo, per il popolo. Le democrazie di oggi hanno molte più componenti: la separazione dei poteri; la presenza di più livelli di democrazia, comunale regionale, statale, sovranazionale; la coniugazione di democrazia con epistocrazia, di scelta elettorale e di scelta in base al merito; il governo diviso, nel senso di più investiture popolari separate; una diversa durata nella carica dei titolari degli organi di vertice, per evitare che la volontà manifestata in un certo momento dal popolo possa prevalere sui cambiamenti della volontà popolare; un controllo sull’operato del potere legislativo da organi di giustizia costituzionale; un controllo esterno attribuito ad organi sovranazionali; la concorrenza tra i poteri. Dunque, la democrazia consiste in molto altro, non solo in periodiche elezioni.

 

Rassegnato. Tutto questo serve a limitare il potere. Ma la democrazia, secondo i suoi sostenitori, serve non solo ad assicurare la libertà dei cittadini, ma anche il progresso, nonché la pace. Invece, vediamo nascere democrazie illiberali, che quindi non garantiscono le libertà; registriamo la presenza di democrazia senza progresso economico e civile; vediamo che anche le democrazie si fanno la guerra.

 

Speranzoso.  E’ vero che vi sono democrazie, come quella ungherese o quella polacca, che hanno preso la strada della limitazione delle libertà, ma è vero anche che vi sono pressioni da parte dell’Unione europea nella direzione opposta. Poi, non è vero che le autocrazie assicurano il progresso, nonostante l’esempio cinese, come è stato dimostrato il 18 maggio 2022 da Federico Fubini sul Corriere della Sera. Infine, è molto utile avere vicini democratici, come stanno scoprendo oggi Finlandia e Svezia. Non concordo quindi con le conclusioni di Robert Skidelsky, l’autore della biografia di Keynes, che in un articolo del 19 aprile 2022 intitolato “The false promise of democratic peace”, pubblicato da “Project Syndicate”, ha sostenuto che la pace democratica è una falsa promessa. Sono democratici i paesi che nel 1949 hanno costituito la Nato, poi il Consiglio d’Europa, la Ceca, l’Euratom, la Cee.

 

Rassegnato. Lo stato globale della democrazia non è buono. Il 70 per cento della popolazione mondiale vive in regimi autocratici: questo è il segno di una recessione democratica. La democrazia è sotto assedio e, come ha scritto un osservatore americano, muore in silenzio, anche perché ad essa sono rivolti attacchi dissimulati. L’Ispi ha dedicato nel 2019 uno studio alla deriva dell’ordine liberale. L’“Institut Villey” di Parigi, nel 2021, ha organizzato un seminario sulle democrazie autoritarie. Il “Centre for the future of democracy” dell’università di Cambridge ha notato che si registra meno fiducia nella democrazia nelle nuove generazioni. La “Freedom House” ha concluso che la democrazia arretra, mentre avanzano le autocrazie. La più antica  democrazia del mondo, quella americana sembra in crisi. Quasi ovunque si registra una verticalizzazione del potere, paradossalmente in nome del popolo.

 

Speranzoso. Se la democrazia è recessiva, l’autocrazia non è, a sua volta, in buone condizioni In primo luogo, le autocrazie tendono a rendere il potere temporalmente illimitato. Putin è al potere da ventidue anni e potrebbe restarvi fino al 2036 e Xi Jinping è al potere da nove anni e potrebbe restarvi senza limiti di tempo. Ricordo che il “Federalista”, numero 53, opera di Madison, cominciava notando “mi si ricorderà forse […] una massima corrente che dice che ‘ove finiscono le elezioni annuali, ivi comincia la dittatura’”, e concludeva osservando che “elezioni biennali sarebbero utili ai fini di un migliore disbrigo degli affari del paese, e necessarie ai fini della sicurezza e della libertà del popolo”. Quindi, un elemento fondamentale della democrazia è quella della temporaneità dei titolari delle cariche pubbliche: le autocrazie lo dimenticano. Un secondo elemento è quello dell’impegno civico, la cui pratica è incentivata dal Parlamento europeo. Un terzo elemento è quello del progresso e del benessere: nessuno è riuscito ancora a dimostrare che le autocrazie li assicurano più delle democrazie. Da ultimo, bisogna ricordare quel che ha detto Putin nel 2015 all’Assemblea della Nazioni Unite, criticando “l’esportazione delle rivoluzioni cosiddette democratiche”, ciò che lui avversa, ad esempio, con la guerra all’Ucraina.

 

Rassegnato. Lasciamo i discorsi generali e passiamo all’Italia: qui ci sono basi deboli della democrazia, forte frammentazione delle forze politiche e loro divisioni interne, pochezza delle strutture dei partiti, un Parlamento vuoto, spoliticizzazione della politica, rivendicazione di diritti individuali e giudiziarizzazione della politica, obsolescenza della forma partito, incapacità di decidere.

 

Speranzoso. Non penso che possiamo parlare di tutti questi argomenti insieme, vanno trattati uno per uno.

 

Rassegnato. D’accordo. Cominciamo dal Parlamento, la sede stessa della democrazia rappresentativa. Nella oscillazione tra rappresentatività e governabilità del sistema, il Parlamento è rimasto sostanzialmente vuoto, ha ceduto l’esercizio della funzione legislativa al governo. Inoltre, è normale che nei cinque anni della XVIII legislatura (2018-2023) si debbano registrare tre diverse maggioranze di governo, con altrettanti indirizzi politici (sperando che il governo Draghi resista fino all’inizio del 2023)?

 

Speranzoso. E’ vero che il governo è il maggiore produttore di norme, ma bisogna anche considerare che il dibattito politico si è spostato in altre sedi: si svolge nella sede delle autonomie, nella dimensione regionale e in quella locale, si svolge nei media e nel mondo digitale. Quanto alle modificazione delle alleanze di governo, anche queste sono il riflesso di mutamenti profondi nel corpo del paese.

 

Rassegnato. Tutto questo aumenta il carattere molecolare, destrutturato, inconcludente della democrazia italiana.

 

Speranzoso. Però l’Italia ha una società aperta, uno spazio pubblico vivace, media che sono aperti agli ascoltatori e agli intellettuali ed esperti, anche quando gli strumenti sono inadeguati, come i talk-show

 

Rassegnato. Ma il dibattito politico che si svolge sui media, se assicura varietà di opinioni e libertà di espressione del pensiero, manca dell’attenzione per il passato e della profondità di analisi dei fenomeni che sarebbero necessarie. I media riescono soltanto a ingrandire i conflitti. Basta prendere come esempio l’uso della parola “bufera”, usata per attirare l’attenzione di lettori o ascoltatori, oppure considerare che i talk-show, più che contribuire all’analisi dei problemi, servono a intrattenere le persone. Bisogna poi considerare quella che è stata definita la morte dei giornali, su cui Franco Debenedetti ha scritto una lunga riflessione sul Foglio del 23- 24 ottobre 2021; ogni nuovo mezzo di comunicazione mette in crisi quelli precedenti e certamente Internet consente un accesso alle informazioni che ha messo in crisi i giornali dopo circa due secoli di vita (Orlando Figes nel suo libro su “Gli europei. Tre vite comopolite e  la costruzione della cultura europea nel XIX secolo”, Milano, Mondadori, 2019, ha messo in luce che lo sviluppo dei giornali si accompagna allo sviluppo delle ferrovie, perché prima la loro distribuzione era esclusivamente locale).

 

Speranzoso. Tuttavia, quest’apertura, questa penetrabilità, l’assenza di filtri consentono una forte libertà di opinione, anche se aumentano il rumore di fondo della democrazia. E si può sempre sperare che coloro che lavorano nei media si rendano conto che, se le notizie sono dovunque e subito, i media dovrebbero dare spazio a giudizi e commenti, senza tentare di alimentare artificiose  tensioni o tenzoni tra forze politiche solo per richiamare l’attenzione dei lettori.

 

Rassegnato. Un altro elemento di crisi della democrazia italiana è costituito dalla spoliticizzazione, che l’Italia ha in comune con la Francia, come osservato recentemente da Pierre Manent. L’offerta delle forze politiche è elementare: esse si limitano a vociare e battibeccare. D’altro lato, i cittadini non fanno altro che rivendicare diritti individuali, con regressione delle organizzazioni che veicolano interessi collettivi ed eclissi delle visioni comunitarie. Ciò si accompagna a una forte giudiziarizzazione della politica, simbolo di questo neo-individualismo.

 

Speranzoso. Convengo sul fatto che la società è sempre meno composta di aggregati e sempre più individualista, che rivendica diritti, senza riconoscere l’esistenza di doveri, che c’è una regressione della politica come interesse per la “polis,” quindi per la comunità alla quale si appartiene. Ma aggiungo che tutto questo ha anche alcuni vantaggi. Il primo è quello che consente una vivace dialettica tra le istituzioni, realizzando in Italia quello che due studiosi americani hanno chiamato “precautionary constitutionalism”. Secondo: questo tipo di democrazia debole lascia spazio a tecnici, come Ciampi, Monti e Draghi in Italia o la nuova responsabile del governo in Francia, Élisabeth Borne, definita dal Monde del 18 maggio 2022 “une technicienne”.

 

Rassegnato. L’elemento più preoccupante è la perdita del legame tra Stato e società che deriva dalla obsolescenza della forma partito. Mauro Calise sul Mattino del 16 maggio 2022 ha giustamente osservato che i partiti sono “fragili, volatili, inconsistenti”. Numerosi osservatori hanno notato, il 15 maggio scorso, che anche le coalizioni dei partiti sono divise per il voto del 12 giugno 2022: in 26 comuni capoluogo il centrodestra si presenta unito soltanto per 20 comuni e il centrosinistra si presenta unito soltanto per 18 comuni. I congressi dei partiti e, in generale, le riunioni dei loro organi collegiali, sono diventati una rarità, così come i programmi dei partiti. Il caso più eclatante è quello del Movimento 5 stelle che si batteva per la democrazia diretta, un obiettivo subito dimenticato, mentre al suo interno, tra i suoi meno di 130 mila iscritti e aventi diritto al voto, nelle ultime elezioni ha votato meno della metà dei membri per la scelta del leader; per l’accesso al finanziamento pubblico ha votato circa un quarto degli aventi diritto; nelle precedenti elezioni del 2021 e del 2022, ha partecipato al voto meno di un terzo degli iscritti. Questo ristrettissimo numero di persone ha determinato l’orientamento di una forza politica che aveva raccolto più di 10 milioni di voti, con conseguente alto numero di rappresentanti parlamentari. Insomma, i partiti italiani attuali si possono ancora chiamare partiti, quali configurati dall’articolo 49 della Costituzione? E possono essere configurati come movimenti, cioè come la formazione sociale che si è poi trasformata in partito? Non sono piuttosto piccole oligarchie composte di federazioni di correnti, altrettanto divise al loro interno quanto numerose?

 

Speranzoso. Ma questo fenomeno dei partiti in crisi va visto anche in termini comparativi. Si può affermare con una certa sicurezza che i membri dei partiti non superano i 400 mila in Francia, i 700 mila in Italia e i 930 000 nel Regno Unito. I partiti rappresentano rispettivamente lo 0,50, l’1,17 e l’1,39 per cento della popolazione sopra i 18 anni. Solo negli Stati Uniti l’adesione ai partiti è più forte, circa 84 milioni, cioè circa il 32 per cento della popolazione di età superiore ai 18 anni) Ma questo è dovuto alle leggi elettorali, che richiedono la registrazione per poter votare. In tutti i paesi, la storia recente mostra che l’affiliazione ai partiti è diminuita. Nel Regno Unito, è passata nel corso di circa 50 anni dal 4 all’1,39 per cento. In Italia, quando nacque la Repubblica, erano 4 milioni gli iscritti ai tre maggiori partiti, mentre oggi il numero totale degli iscritti di tutti i partiti è – come detto – di 700 mila (anche se la popolazione è passata da circa 46 a 60 milioni di abitanti). L’affluenza alle urne degli aventi diritto al voto (“voter turn out”) è stata – nelle ultime elezioni per i parlamenti nazionali – circa del 73 per cento in Italia, circa del 67 per cento nel Regno Unito, circa del 53 per cento negli Stati Uniti (contro circa il 42 per cento nelle precedenti elezioni) e circa del 49 per cento in Francia. Nelle elezioni regionali/locali l’affluenza alle urne è stata più bassa, 56 per cento negli Stati Uniti,  54 per cento in Italia, 35 per cento in Francia,  34 per cento nel Regno Unito, il paese del “self government”.

 

Rassegnato. Un’altra debolezza della democrazia italiana è segnalata dalla instabilità della formula elettorale. Se non ci si mette d’accordo sulla traduzione dei voti in seggi, e si cambiano continuamente i metodi, vuol dire che non si è d’accordo sulla regola fondamentale della democrazia. Ad esempio, ora è ancora aperto il dilemma di fondo tra proporzionale con soglia alta e maggioritario a doppio turno. I sostenitori della prima soluzione criticano la seconda soluzione affermando che il premio di maggioranza a partiti coalizzati per l’elezione crea coalizioni per vincere queste ultime, ma non per governare. I sostenitori della seconda soluzione affermano che l’indirizzo politico deve essere scelto dal popolo, o meglio dalla sua maggioranza.

 

Speranzoso. Ma queste oscillazioni nella formula elettorale, più volte modificata dalla legge Mattarella del 1994, riflettono mutamenti negli orientamenti dell’elettorato, e quindi sono a loro volta democratiche. Inoltre la democrazia italiana ha resistito al virus e alla guerra, nonostante che questi due fattori, quello sanitario e quello bellico, abbiano messo in uno stato di tensione l’ordinamento democratico per la necessità di prendere decisioni molto rapide, che ha comportato uno spostamento dei poteri al vertice.

 

Rassegnato. Molti ora sostengono che occorre difendere la democrazia, come se essa non si dovesse difendere da sola, nel senso di riconquistare il patrimonio di tradizioni che fanno parte della sua storia.

 

Speranzoso. Non escludo che la democrazia possa rafforzarsi con innesti. Uno è stato già sperimentato, quello della tecnocrazia. Un altro è stato proposto dal Financial Times del 10 settembre 2020, quello di contrarre l’area dei poteri pubblici dominata dalla democrazia: una minore quantità di democrazia potrebbe rafforzarla. Inoltre, per rinvigorire la democrazia si può anche pensare alla esportazione di istituti democratici. La loro trasferibilità può comportare costi economici, militari e umanitari, come ha osservato Robert Skidelsky nel suo articolo già citato, ma comporta anche cospicui vantaggi: le democrazie fioriscono se sono sotto gli occhi non solo nel popolo, ma anche dei “vicini di casa”.

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