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Quei compagni che dicono: "Mélenchon, salvaci tu"

Francesco Cundari

Dopo le travolgenti passioni per Zapatero e Tsipras, il nuovo modello a sinistra è il leader della gauche arrabbiata

La sinistra italiana è sempre stata internazionalista, cosmopolita, aperta al mondo, alle più diverse ispirazioni e contaminazioni. Forse anche troppo. Dagli Stati Uniti, a partire dal 2005, ha preso per esempio l’abitudine di selezionare i suoi leader con le primarie, sebbene con risultati non sempre unanimemente apprezzati, e men che meno rispettati, specialmente negli ultimi tempi. “El pueblo de la sinistrera teneva una speranza en las primarias, una speranza sola. La speranza è muerta, è rimasta la sòla”, scandiva Maurizio Crozza in versione Gipsy Kings commentando l’esito di quel primo esperimento del 2005, le primarie dell’Unione. Esito invero piuttosto scontato: tutti i maggiori partiti del centrosinistra appoggiavano Romano Prodi, che ovviamente stravinse. 

L’aspetto interessante della vicenda è che il desiderio di imitare modelli stranieri per tirarsi fuori dalle secche di un sistema politico giudicato sempre inadeguato, deludente, premoderno, mai all’altezza degli altri paesi (tendenza antichissima della cultura italiana, molto più antica della stessa unità nazionale), non caratterizza solo i partiti che forse anche per questo hanno deciso di scimmiottare le primarie americane, ma pure i loro critici. “Ay, como es triste esta canción, io sognavo Che Guevara e c’è Bordon”, cantava infatti Crozza sulle note di “Bamboléo”, ribattezzata per l’occasione “Zapatero” (“Zapatero, Zapatera, l’un per ciento de tu carisma me sierve aquí / Zapatero, Zapatera, la primaria non me sierviva se c’eri ti”). 

Il comico sapeva di toccare un tasto dolente, perché allora il modello, fonte di ogni ispirazione e vertice di ogni aspirazione, almeno per una parte della sinistra italiana, era proprio lui: José Luis Rodríguez Zapatero (“El pueblo chiede un leader forte e apasionado / Prodi bofonchia, pare un prelado”). Non per niente, il presidente del Consiglio spagnolo giusto in quell’anno era riuscito a far approvare le nozze gay, tra i primi in Europa, in un paese di antica tradizione cattolica e controriformista (“E intanto Bertinòti, fa spese in via Condòti / ma porqué, ma porqué, ma porqué…”). Figuriamoci quanto dovrebbe essere triste quella canción, oggi che, dimenticato Zapatero, si sogna Mélenchon. L’ultima infatuazione che ha colto buona parte del fronte progressista è infatti proprio il settantenne Jean-Luc Mélenchon, in parlamento dal 1986, che al primo turno delle elezioni francesi non è riuscito a qualificarsi per il ballottaggio, insomma ha perso, d’accordo, ma ha perso benissimo, con il 22 per cento, mancando di un soffio il secondo posto conquistato da Marine Le Pen. E si sa che niente entusiasma la sinistra italiana quanto una bella sconfitta.

Intendiamoci, che Mélenchon abbia preso un sacco di voti e abbia umiliato il suo ex partito (il Partito socialista scomparso al di sotto del 2 per cento) è indiscutibile. Come ha notato Paolo Branca su strisciarossa.it, costola online della vecchia Unità, nessuno può certo mettere in dubbio “le sue capacità di intercettare il malessere e persino la sofferenza nella società francese, dai ceti popolari alla nuove generazioni istruite eppure senza futuro” che la sinistra riformista non riesce più a rappresentare. “Ma possibile che il ‘modo’ in cui questa leadership viene esercitata lasci così indifferente il mondo della sinistra?”. Una leadership da anni alla guida “dell’ennesimo partito personale e populista”, che al pari di Le Pen “rivendica la battaglia contro le élite, pur avendone fatto parte per oltre trent’anni”, per non parlare delle posizioni anti-europee e filo-Maduro, o della sostanziale equidistanza nella tragedia ucraina. “Invece la rincorsa è inarrestabile: Bertinotti, Conte, Di Battista… Può essere l’ex premier giallorosso il Mélenchon italiano?”.

Va detto che molte volte è anche colpa di noi giornalisti. I politici sono spesso più vittime che artefici di questo gioco delle coppie, cui la stampa si abbandona con voluttà all’indomani di qualunque elezione si tenga fuori da confini. Spesso, ma non sempre. “Quello di Mélenchon è un risultato straordinario, con lui mi auguro di poter costruire un fronte europeo di sinistra innovativa e radicale. Ci incontrammo a Napoli nel 2018, apprezzò il lavoro che stavamo facendo sui beni comuni, sull’ex opg, insieme ai centri sociali. Ci siamo intesi subito”, ha detto ieri al manifesto l’ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris. “Il risultato francese ci spinge a costruire quella sinistra che oggi non c’è. O meglio: c’è una sinistra diffusa che non trova più rappresentanza”, dichiara.

Prima di lui, già all’indomani del voto, Stefano Fassina twittava i suoi complimenti al leader della France Insoumise direttamente in francese, dopo avergli già chiocciolato il suo endorsement alla vigilia, motivandolo tra l’altro con l’obiettivo di “construire la paix entre l’Ukraine et la Russie avec la realpolitik”. L’idea di “costruire la pace con la realpolitik” potrà magari apparire un po’ confusa, e non solo per il pastiche linguistico, ma la coerenza fassiniana non può essere messa in discussione. Già alle elezioni precedenti, nel 2017, il leader della corrente di sinistra del Pd prima e di Leu poi lanciava un appello per Mélenchon, di cui tirava un onesto bilancio in un’intervista a Repubblica del 24 aprile: “Hanno risposto Pippo Civati, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, Maurizio Acerbo di Rifondazione comunista. Laura Boldrini mi ha fatto sapere che, data la sua funzione istituzionale, preferiva non esporsi. Mentre Mdp ha confermato il suo sostegno a Benoît Hamon, in quanto formalmente candidato della famiglia socialista europea”.

D’altra parte, anche questa degli appelli italiani per le elezioni degli altri è tradizione antica, che ha visto forse il suo culmine nel caso greco, con l’infatuazione per un altro leader della sinistra: Alexis Tsipras. Raro caso in cui, alle europee, siamo stati capaci di intitolargli persino una lista elettorale, la “Lista Tsipras” (per la precisione: “L’altra Europa per Tsipras”). In pratica, un partito personale senza la persona. Una lista in contumacia. Coerentemente con tale ispirazione, anche i capilista, fior di intellettuali del calibro di Barbara Spinelli e Moni Ovadia, annunciavano che qualora eletti si sarebbero subito dimessi, lasciando il posto ai secondi in lista, nel caso specifico, rispettivamente, ai giovani Marco Furfaro (Sel) ed Eleonora Forenza (Prc). Sta di fatto che una volta eletta, eventualità che inizialmente non doveva forse apparirle scontata, Spinelli decide di restare al suo posto.   

Straziante la reazione di Furfaro, che l’8 giugno, sull’Huffington post, fa appello a tutte le risorse della sua arte retorica: “Sono amareggiato, non lo nascondo. Ma non è la cosa che conta in questo momento. Voglio dirlo con forza: non importa. Non importa se sono, anzi, siamo, perché con me c’era un’altra persona, Eleonora, stati trattati come carne da macello in questi giorni. Senza nessuna cura per le persone in una lista che recitava ‘prima le persone’. Non importa se in quasi 15 giorni non abbia ricevuto né telefonate né mail né nient’altro da Barbara Spinelli per comunicarmi ripensamenti o altro. Non importa se nessuno, nemmeno uno, dei garanti abbia avuto l’eleganza di farmi una telefonata. Non importa se circa 48 ore fa mi hanno chiamato alle 2 di notte per comunicarmi di ‘dormire tranquillo, Barbara ha mandato una lettera ufficiale, ha rinunciato, dobbiamo solo limare un punto, ma sei europarlamentare’ e poi nessuno mi ha comunicato cosa fosse successo dopo. Non importa se si potrebbero dire tante cose sulle preferenze e su chi ha deciso di darle a chi aveva chiesto un voto per il progetto politico e non per se stessa. Non importa se sono andato in tv per otto giorni come ‘eletto’ perché mi rassicuravano dicendomi ‘tranquillo, facciamo una cosa con voi, Moni Ovadia e Barbara Spinelli’ in cui si passi pubblicamente il testimone. Non importa se Barbara Spinelli non si è sognata di presentarsi a un appuntamento post-elettorale o a un’assemblea come quella di sabato pomeriggio che le ha chiesto un confronto. Non importa se una decisione, che non riguardava me, ma un processo politico, una comunità, una speranza, è stata sequestrata, fatta in stanze sconosciute, sotto campane di vetro e in una logica proprietaria. Non importa”. 

La “lettera aperta” continua, su questo tono, per complessivi 5.872 caratteri spazi inclusi. E tu pensa se gliene fosse importato. L’increscioso incidente non basta comunque a raffreddare la passione della sinistra radicale per Tsipras e per il suo partito, Syriza. A dirla tutta, l’entusiasmo arriva a sfiorare i limiti dello stalking. In vista delle elezioni politiche, fissate in Grecia per il 25 gennaio 2015, si costituisce in Italia la “brigata Kalimera” (termine che in greco significa “buongiorno”, e in italiano rende bene la fortuna dell’operazione). L’allegra brigata raccoglie, oltre ovviamente ai partiti che hanno dato vita alla lista Tsipras, diversi esponenti della minoranza del Pd in rotta con Matteo Renzi, a cominciare da Fassina e Civati. Il programma prevede la partecipazione alla manifestazione di chiusura della campagna elettorale di Syriza ad Atene e l’attesa dei risultati del voto in piazza. Va detto che la passione per Tsipras, in fondo, è stata anche tra le meno dannose. E si è andata a spegnere naturalmente una volta che Tsipras le elezioni le ha vinte sul serio, e ha dovuto governare. In particolare dopo la rottura, avvenuta quasi subito, con il suo scoppiettante ministro delle Finanze, Yanis Varoufakis.

Ben più cara costò al centrosinistra italiano, per esempio, la passione di Fausto Bertinotti per il primo ministro francese Lionel Jospin, e in particolare per la sua legge sull’abbassamento dell’orario di lavoro a 35 ore settimanali a parità di salario, che fu tra le ragioni che portarono alla caduta del primo governo Prodi nel 1998. Bisogna pure dire che non andrà molto meglio neanche a Jospin, autore di un record negativo imbattibile alle presidenziali del 2002, in cui non riesce nemmeno ad arrivare al ballottaggio, costringendo i socialisti all’incubo di dover fare campagna per il loro principale avversario, il gollista Jacques Chirac, pur di scongiurare la vittoria dell’estrema destra di Jean-Marie Le Pen (il padre di Marine) al secondo turno. Non parliamo nemmeno di cosa rappresentò, a proposito di passioni funeste, la furia maoista che infiammò politici e intellettuali dell’estrema sinistra negli anni settanta. Ma è argomento in cui non c’è motivo di addentrarsi, perché dalla farsa passeremmo alla tragedia.

Rispetto a simili precedenti, insomma, il modello Mélenchon appare persino innocuo. Resta però una costante, in tante analisi che nel corso dei decenni si sono fatte, dall’Italia, a proposito dei leader e dei fenomeni politici più diversi. Una costante che si ritrova tale e quale nelle parole del leader di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, convinto che il risultato di Mélenchon segnali “la presenza di uno spazio politico ed elettorale per una sinistra capace di mettere al centro la lotta alle disuguaglianze, al disagio sociale, alla povertà e ai cambiamenti climatici”. La costante è una singolare omissione, che potremmo condensare nel seguente interrogativo: se questo spazio politico ed elettorale, come giurano sempre i leader della sinistra radicale nostrana, c’è eccome, anche in Italia, e però a loro non riesce mai di occuparlo, non saranno loro il problema?

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