In primo piano Enrico Letta. Sullo sfondo Mario Draghi (LaPresse)

quale riformismo?

Draghi e la trappola per il Pd 

Enrico Morando

Il principale partito della sinistra italiana e i suoi alleati minori devono riproporre la “vocazione maggioritaria”, rivolgendosi agli elettori con una proposta che non si fermi al quotidiano, o all'emergenza, ma che guardi alla soluzione dei grandi nodi della società. Equivoci da risolvere per non vanificare una buona stagione

C’è in giro un’aria di rassegnazione che non promette nulla di buono. Sembra che la massima aspirazione della sinistra riformista trovi espressione in una strategia in quattro mosse. Primo. Andare al voto nel 2023 “liberi dal vincolo soffocante delle coalizioni”. Secondo. Prendere con sollievo atto, dopo il voto, che non ci sono, nel nuovo Parlamento, né una maggioranza, né una minoranza politicamente omogenee. Terzo. Dare vita a un governo presieduto da una personalità terza (il massimo sarebbe Draghi, ma, in mancanza, da qualcuno che vagamente gli assomigli, purché non abbia partecipato alla competizione elettorale), ed appoggiato sia da forze politiche di centrosinistra, sia da forze politiche di centrodestra. Tutto ciò consentirebbe (quarto) che il Pd, nato per essere il partito asse dell’alternativa di governo al centrodestra, decisa dagli elettori, possa continuare a essere, anche nella prossima legislatura, il “partito del sistema”, presente in ogni soluzione di governo, a garanzia dell’ancoraggio del paese all’Europa, all’atlantismo e… al principio di realtà.

 

Intendiamoci: che questa legislatura, apertasi con l’elezione di un Parlamento dominato da due forze diversamente populiste, si concluda con ben due anni di buon governo ha del miracoloso. Ed è impossibile negare che questo “quasi miracolo“ sia stato il frutto-oltre che della lungimiranza del presidente Mattarella e della disponibilità e del credito di Draghi anche della estrema duttilità tattica delle forze della sinistra riformista, da IV al PD: c’era da sbarrare la strada al Salvini del Papeete; da vaccinare tutti nel più breve tempo possibile, sostenendo le forze produttive e i più deboli; da progettare ed attuare un Pnrr che coniugasse veramente investimenti e riforme… La possibilità stessa di aprire un vero ciclo di governo riformista era dunque, nell’immediato, indissolubilmente legata prima ad una spregiudicata iniziativa di movimento, che isolasse all’opposizione il Salvini dei “pieni poteri“ e dell’euro “non irreversibile“ (il Conte2); e poi all’impegno per sostenere il tentativo di Mattarella di dar vita ad un governo di grande coalizione, per mettere in sicurezza il paese e realizzare le riforme previste dal Pnrr.

 

Resta ancora un anno di lavoro, e il governo sembra volerlo utilizzare non per ridimensionare, ma per rafforzare la sua iniziativa di cambiamento, dopo la pausa per la elezione del Presidente. Non possono però affrontare le elezioni del ‘23 con l’obiettivo strategico di… ripetere per anni la situazione attuale. Non solo perché Draghi, “se vorrà, si troverà da solo un altro lavoro”. Ma anche e soprattutto perché, nel 2023, dopo due anni di collaborazione di governo con Forza Italia e Lega, rafforzata dalla comune scelta di rieleggere Mattarella Presidente, verranno meno sia lo “stato di eccezione” che ha motivato le scelte compiute in questa legislatura, sia la possibilità di fondare il rapporto con gli elettori sul solo impegno ad impedire che governino forze “pericolose“ per la collocazione internazionale dell’Italia e per la stessa democrazia.

 

Certo, alla stazione dove stava in attesa Salvini è passato un treno comodo, diretto alla piena legittimazione della Lega come forza di governo e di Salvini come leader dell’intero centrodestra (il treno della possibilità di farsi promotore, con tutta la maggioranza di governo, della elezione di Draghi a Presidente). Che Salvini non sia salito su quel treno non è però una buona ragione per ritenere che l’esperienza del governo Draghi possa essere chiusa tra due parentesi, facendo tornare tutti i protagonisti alla casella di partenza (la reciproca delegittimazione). Gli elettori non capirebbero. Anzi, si sentirebbero presi in giro.

Lungi dal rassegnarsi a vivacchiare nell’eterno ritorno di una emergenza economica, pandemica o democratica che sia, cui far corrispondere soluzioni anomale, il principale partito della sinistra italiana e i riformisti raccolti in formazioni minori devono riproporre la loro “vocazione maggioritaria”, rivolgendosi agli elettori con fiducia sulla capacità di sostenere una proposta che non accetti di schiacciarsi sul quotidiano, ma guardi alla soluzione dei grandi nodi – da quello demografico a quello ambientale, da quello della qualità del capitale umano a quello di un nuovo equilibrio tra i poteri dello Stato – nel medio e lungo periodo, attraverso un vero e proprio ciclo di governo riformista, dotato della legittimazione (e della forza) che deriva dalla consapevole scelta degli elettori per un programma ed una leadership formatisi prima del voto. C’è il rischio di perdere? Certo. Ma la tranquilla determinazione ad affrontarlo dovrebbe essere il frutto migliore di questa lunga fase di governi “anomali”, formati sotto l’urgere delle emergenze: non è un nemico da tenere ad ogni costo lontano dal governo quell’avversario con cui hai condiviso per anni la responsabilità di dirigere il paese.
 

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