(foto d'archivio LaPresse)

Rivolta padana

Pettenà, leghista veneto sul patibolo: “Non ho paura, dopo di me ce ne saranno altri”

Francesco Gottardi

Lo storico presidente del consiglio provinciale di Treviso è tra i più agguerriti oppositori del nuovo Carroccio. L’ultimo attacco – “Salvini vada a lavorare” – probabilmente gli costerà l’espulsione. Ma per il suo leader è pronto a immolarsi: “Non toccate Zaia, non c’entra nulla”

La serenità è quella dell’uomo sul patibolo. “Non temo nulla, sono tranquillo. Il Consiglio federale ha deciso e sono in attesa di notizie”. O di chi sa vedere oltre la sua sventura: “Perdere la tessera della Lega potrebbe mai precludere il mio impegno nel territorio?”. Fulvio Pettenà è un veterano. Quasi un’istituzione, a Treviso e dintorni: 35 anni di militanza nel Carroccio, presidente del Consiglio di provincia fino al 2011 e fedelissimo di Luca Zaia ben prima dell’ascesa politica del governatore senza rivali. Per Salvini e i vertici però, conta solo che si stia ritagliando spazio come portavoce del malcontento leghista in Veneto. Forse il più accanito di tutti.
L’escalation di Pettenà, in tappe. Luglio 2021, al Gazzettino: “La Lega sulla nostra terra non c’è più. Persa per strada la questione dell’autonomia. E chi l’ha mai vista la classe dirigente? Chi è il commissario Stefani?”. Ottobre 2021, al Foglio, dopo il caso Morisi: “Salvini scelga meglio di chi circondarsi. Un tempo si facevano i congressi, ora la linea del partito viene decisa in tv da pochi illustri sconosciuti” (il mese seguente gli arriva il primo deferimento). Gennaio 2022, alla Tribuna di Treviso, il giorno dopo il Mattarella bis: “Salvini? Mi chiedo se abbia ancora il contatto con la realtà. Lui parlava di ruspa, forse gli farebbero bene sei mesi di pala e badile. Nelle cave, come i nostri nonni”. Forse è l'autocondanna al tramonto della propria carriera politica, vista la stagione delle purghe di nuovo di moda a Via Bellerio.

Oggi Pettenà mezzo sospira, mezzo sorride. Torna a parlare al Foglio, ma non per rincarare la dose: “Di carne al fuoco ce n’è già abbastanza”. Traccia un’analisi lucida, un po’ più a freddo, sulla polveriera che lui stesso ha contribuito a scatenare nel grande Veneto verde – ma è in ottima compagnia: a un passo dall’espulsione anche il sindaco di Noventa Padovana Marcello Bano e l’ex presidente del Consiglio comunale di Conegliano Giovanni Bernardelli, mentre al momento è stato sospeso il procedimento per l’europarlamentare Toni Da Re. Punti in comune? Le critiche al dirigismo salviniano, dagli scivolamenti no vax alle scelte imposte dall’alto. “Tutti noi abbiamo tirato fuori argomenti condivisibili e soprattutto condivisi”, spiega Pettenà. “Io sono semplicemente un megafono: porto le istanze di terzi, le obiezioni del popolo trevigiano – non è un’esagerazione, nell’hinterland delle percentuali bulgare, ndr – che sta patendo questa situazione”.

L’assenza della Lega, proiettata sulla capitale trascurando la madrepatria. “Lo scollamento c’è, è sotto gli occhi di tutti: questo partito è sempre stato confronto e partecipazione nel territorio. La nostra forza è sempre stata la nostra base. Chi è a Roma non conosce le dinamiche che ci sono qui”. L’icona di Treviso e gli altri ribelli invece sì: oltre il Carroccio, Pettenà è molto conosciuto per la sua ditta di idraulica, Bernardelli è un cultore del prosecco delle Prealpi e Bano un commerciante di borse e valigie. Uomini di popolo, insomma. “E infatti mi limito ad ascoltare la gente. Il passo successivo è riferire questo malcontento deciso e diffuso: se a me non permetteranno più di farlo, ci penseranno altri”.

Guarda avanti, Pettenà. E soprattutto si immola per il suo vero leader, non appena lo tiriamo in ballo: “Zaia? Lasciamolo stare, per carità”. Il governatorissimo fin qui ha tentato di fare da paciere con massima prudenza. Senza esporsi contro Salvini o per i sottoposti sotto tiro. “Lui è un vero amministratore, un fantastico decisionista. Rimanga dov’è, che non ce lo tocchi nessuno. Negli ultimi tempi non ho nemmeno voluto parlargli, per evitare di coinvolgerlo: qualsiasi cosa dica in nostra difesa sarebbe usata contro di lui. È una questione fra la base e i vertici. E deve rimanere tale”. Che quella di Zaia sia sincera diplomazia o stoffa del temporeggiatore, è l’unica cosa che i suoi aficionados più esposti non vogliono rivelare. E si capisce: anziché fare da detonatori, farebbero il gioco di Salvini. Non sia mai, ora che il Veneto ribolle.

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