Matteo Salvini (foto LaPresse)

girotondo di opinioni

Un predellino con vista centrodestra. La Lega è cambiata, cambierà anche Salvini?

Annalisa Chirico

Dove può andare la coalizione, oggi a pezzi, con Fratelli d’Italia e Forza Italia? Idee, prospettive, consigli non richiesti su rotte e timonieri: parlano Manca, Buttafuoco e Bei

E’ la volta del “predellino” di Matteo Salvini? Sì, no, forse. Di certo la settimana quirinalizia, con mandato bis e scampato draghicidio, ha fatto venire a galla una certezza: il centrodestra non esiste più. Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia si muovono lungo binari paralleli, ciascuno per conto suo, e forse proprio per questo il leader leghista avverte l’urgenza di contrapporre il nuovo al vecchio, di cambiare rotta e timonieri.

   
“In Italia va rifondata la politica, non solo il centrodestra”, risponde così al Foglio il vicedirettore del Corriere della Sera Daniele Manca. Gli chiediamo dell’idea di “federazione”, sulla falsariga del Partito repubblicano a stelle e strisce. “Uno spazio per un partito conservatore c’è nella misura in cui si riescano a trovare delle linee comuni. Lega, FdI e FI avrebbero dovuto usare l’anno di decompressione, offerto dal governo Draghi, per individuare argomenti condivisi su cui costruire un’aggregazione. Le elezioni del Quirinale ci hanno fatto capire che ciò non è accaduto”. Ma l’elefantino italiano ha chance di successo? “Se punta all’aggregazione di ceti dirigenti preesistenti, parte con il piede sbagliato. Abbiamo bisogno di recuperare il cinquanta per cento di italiani che non va a votare o lo fa con difficoltà, di malavoglia. I leader devono avere anzitutto un progetto politico, poi su questo cercare il consenso. Quando Berlusconi avviò la sua parabola politica, era circondato da professori e pensatori, personalità del calibro di Urbani e Martino. Ecco, se Salvini è andato a pranzo con Sabino Cassese, gli consiglierei di farlo più spesso, almeno una volta a settimana, e non solo con lui”.

   

Da dove dovrebbe partire il nuovo “progetto politico”? “I partiti devono lavorare, e il lavoro che devono fare è sulle idee, non basta occuparsi soltanto della campagna elettorale per vincere. Domando: Lega, FdI e FI hanno un’idea comune su quale peso in un’economia del Ventunesimo secolo debbano avere lo stato e le imprese? Non ho visto una discussione su questo. Non è cosa di poco conto decidere se debba esserci una rete unica di comunicazione posseduta dallo stato, perché queste decisioni hanno ripercussioni su colossi come Tim, Vodafone, Wind etc. Non è una perdita di tempo confrontarsi sulla collocazione geopolitica: la riunione dei conservatori europei, tenutasi a Madrid lo scorso weekend, non ha concluso granché, anzi sulla crisi ucraina c’è stata una spaccatura evidente. Non si tratta, come dice qualcuno, di scegliere se stare in Europa oppure no, questo dibattito mi sembra superato, anche perché se così fosse non ci sarebbe neppure lo spazio per sedersi al tavolo. Europa sì, Europa no, è una visione semplicistica. La sfida è decidere dove deve stare l’Europa e quali rapporti deve avere con Russia e Cina. Quando il premier Mario Draghi alza il telefono e parla con il presidente Vladimir Putin, non è una mossa tecnica per assicurarsi la fornitura di gas ma è una mossa politica. Le scelte tecniche sono sempre figlie di scelte politiche. In Europa, il fatto che la Germania non intenda rinunciare a Nord Stream che trasporta il gas direttamente dalla Russia, è per noi accettabile oppure no? Tra gli oppositori del Tap di Brindisi, c’erano pure segmenti di centrodestra”.

  

Perché in Italia ha fatto tanto discutere il video-incontro di Putin con alcune aziende italiane, Enel in testa? Mosca è il crocevia di interessi enormi: si può politicizzare ogni cosa? “Se non hai ben chiari quali sono i processi in atto nel mondo, agisci d’impulso e sbagli. Non ha alcun senso vietare la videoconferenza con Putin perché c’è una crisi in Ucraina, peraltro a quel colloquio ne sono seguiti di analoghi con le imprese francesi e tedesche, senza tanto chiasso mediatico. Se l’Occidente impone sanzioni alla Russia, le aziende anche italiane ne subiranno le conseguenze. Esistono processi politici che toccano i confini della Nato, le eventuali sanzioni eccetera, poi esistono processi commerciali che non vanno mescolati e non possono essere ponderati sull’onda del momento. Del resto, se non fosse così, dovremmo interrompere immediatamente ogni rapporto con la Cina per la repressione degli uiguri nello Xinjang. E con chissà quanti altri stati”. 

   
Come giudica l’esito della Quirinaleide conclusasi con la rielezione di Sergio Mattarella? “Si è fatta una scelta tanto di alto livello quanto di ripiego. Aggiungo un punto: come si può pensare di proporre un’alta funzionaria dello stato come Elisabetta Belloni a presidente della Repubblica? Al di là degli aspetti di opportunità per il ruolo di vertice dei servizi segreti, noi conosciamo forse l’area culturale cui fa riferimento Belloni? Quali sono le sue idee sull’America e la Cina, sull’aborto e la famiglia? Ciò evidenzia la debolezza dei partiti. I partiti, ripeto, non stanno lavorando. Sia a destra che a sinistra. Dovrebbero dirci chiaro e tondo se i conservatori italiani stanno con il Ppe o con i conservatori europei, se vogliono una Commissione più forte o più debole, se immaginano un Parlamento che legiferi su quali temi, se sono favorevoli a un super ministero dell’Economia europeo oppure no, che cosa pensano degli stoccaggi comuni del gas per l’autonomia energetica europea... Agli italiani va proposto un contratto chiaro. ‘Prima gli italiani’, vuol dire poco, con slogan di questo tipo puoi prendere i voti di chi già vota per te ma riesci a pescare nell’area del non voto?”.

  

Con la fine del berlusconismo l’Italia risprofonda nel proporzionalismo? “La legge elettorale è figlia del lavoro dei partiti che sono le idee non gli slogan. Se i partiti non lavorano, si accorderanno per una legge proporzionale. La vera riforma da fare sarebbe un sistema a doppio turno, alla francese, per avere due schieramenti opposti che si confrontano: democratici e conservatori. Tuttavia la politica italiana è quella del giorno per giorno, non mi farei illusioni. Siamo il paese che in Europa ha il record dei sistemi elettorali sperimentati negli ultimi vent’anni, mi viene il dubbio allora che il problema non siano le norme con cui si traducono i voti in seggi ma piuttosto i partiti e il loro funzionamento. In Germania governa una coalizione composta da socialdemocratici, verdi e liberali: idee diverse ma programmi comuni, ci sono riusciti discutendo di politica, politica energetica, industriale e via dicendo”. Serve un cambio di leadership nei partiti? “E’ necessario un allargamento. La classe dirigente spesso è la stessa da tanti anni, Berlusconi fa quello che può e che l’età gli consente ma in FI anche i suoi dovrebbero mettersi di più in gioco in prima persona. Servono persone che indichino l’Italia che sarà tra cinque anni. Non è un problema anagrafico: Henry Kissinger oggi è fisicamente provato ma è sempre stato uno dei consiglieri più ascoltati negli Usa”. Nelle elezioni del Quirinale sono rispuntati i Mastella, i Cirino Pomicino... i grandi vecchi. “Perché conoscono la grammatica istituzionale. Vengono ascoltati perché hanno in testa una cornice politica istituzionale, l’età non c’entra”.

  
Più critico con predellini e sportellate salviniane, è lo scrittore e giornalista Pietrangelo Buttafuoco: “La trovata del partito repubblicano all’italiana ha un vago retrogusto provinciale, il che non guasta nell’orchestra italiana. E’ chiaro il riferimento a una moda americana. Incombe sempre la maledizione di una nota canzone di Renato Carosone, ‘Tu vuò fa’ l’americano’, appoggiarsi a questo canone occidentalista è una malattia antica della destra. Il partito repubblicano fa venire in mente l’Edera di La Malfa e Spadolini, speriamo che tutta la sagacia e l’acuta capacità strategica di Denis Verdini, al tempo uno dei protagonisti della stagione spadoliniana, possa essere d’aiuto. Se però è un’operazione di ripulitura, la vedo complicata perché Salvini va a inserirsi nel solco che ebbe a praticare con molte sfortune Gianfranco Fini. Ci sono due elementi da tenere in conto: il primo è che c’è una maggioranza obiettivamente larga nel sentimento italiano che ha in dispetto la prepotenza della minoranza egemone, quella della sinistra che coincide con quella del sistema. Questa maggioranza, un tempo si sarebbe detto ‘silenziosa’, non ha voce né rappresentanza politica, sociale, culturale. I leader del centrodestra sono ormai ridotti a due, essendo il berlusconismo tutt’altra storia rispetto al centrodestra. I due perdono tempo a litigare tra loro e così acuiscono nell’elettorato di riferimento un sentimento di disaffezione gettando tutti questi elettori tra le braccia della sigla più attrattiva, quella dell’astensionismo. La società italiana è destinata al partito unico, il conformismo ha definitivamente chiuso i lucchetti inaccessibili del potere. Partito repubblicano o meno, la vedo complicata”. 

 
Lei ha detto che nelle gesta salviniane scorge una traccia di dialettica… “Riassumo: la tesi è il Papeete, l’antitesi è data dalle amministrative recenti con Michetti a simboleggiare la disfatta, la sintesi è l’ultima elezione del Quirinale. C’è un filotto di errori che quasi replicano la parodia della dialettica”. La legge elettorale cambierà? “Siamo alle solite: chi sa di perdere vuole il proporzionale, chi conta di vincere vuole il maggioritario. Ma il sistema non tiene più conto dell’esito elettorale. Sono sicuro che si andrà verso il proporzionale così il Pd, con il suo venti per cento circa di consenso, continuerà a governare. Il Pd è ormai il riferimento centrale del sistema: governa anche quando perde”. E’ il de profundis del bipolarismo, della democrazia dell’alternanza. “Il bipolarismo è finito perché non c’è più Berlusconi in campo. E tuttavia la Lega ha un grande vantaggio: ha un blocco sociale di riferimento, il nord è il nord. Ma credo che questo tentativo di ripulirsi e trasformare la leader dei conservatori, Meloni, in una sorta di Le Pen italiana, si ritorcerà contro perché alla fine la gente anziché voterà una Lega addolcita si getterà tra le braccia dell’originale votando o direttamente Meloni o, in alternativa, il Pd. Con queste contorsioni la Lega rischia di fare la fine del M5s. Negli scorsi giorni, ho letto dichiarazioni inaudite contro Meloni aggrappandosi al Novecento: è il segnale della scorciatoia”. La Lega ha fatto sapere che nel nuovo partito stile Usa non ci saranno “estremisti legati a ideologie sconfitte dalla storia”. “E’ la scorciatoia, appunto. Capisco se a usarla è Fabio Fazio ma non la comprendo se viene da chi conosce la politica. E’ un po’ come l’ansia dei ministri di FI di farsi accreditare presso i salotti buoni parlando la lingua del Pd. Con il Pnrr gli arrembanti trentenni andranno direttamente nel Pd, chiunque vorrà lavorare e avere un ruolo in società sa che deve parlare la lingua del potere, così aderisce al Pd. Sarà la tessera per ottenere la cittadinanza attiva. Andiamo verso il partito unico, non è un caso l’invettiva di Hillary Clinton contro gli elettori di Donald Trump. Esisterà il partito del sistema, fuori i deplorevoli”. Ma allora a che serve votare? “Le elezioni si terranno comunque, si andrà a votare ma sarà inutile perché, anche se dovesse perdere, il Pd resterà in ogni caso al governo. FI l’ha fatto prima, la Lega lo sta facendo adesso: si sforzano tutti di rendersi appetibili agli occhi del Pd, il perno del sistema”. 

 
Volando un po’ più lontano, che dice della patente di atlantismo? Alle ultime elezioni del Quirinale i candidati sono stati tutti testatissimi… “In Italia ogni partito è atlantista, saldamente incardinati nell’Occidente. Non esistono eccentricità, possono fare tutti gli esami del sangue. La telefonata di Draghi a Putin si è articolata in due parti: prima la geografia sulla crisi ucraina, poi si è passati al concreto realismo politico, il calorifero. Draghi si è confermato il meglio della tradizione andreottiana laddove la sostanza delle cose parte da un interesse reale. A meno che non vogliamo restare al freddo”. 

 

Ma è vero che nel “tiatro” del Quirinale, come lo ha chiamato, ha trionfato la gerontocrazia? “Ne è uscita sconfitta la generazione attiva. Neanche i sessantenni sono riusciti ad avere un ruolo, e questa malinconica considerazione riguarda tutti gli schieramenti. Salvini è giovane, Letta è giovane, Di Maio e Meloni sono giovani. Ci si aspettava che venisse fuori un poco di aria fresca. Ma non c’è aria fresca. La legislatura iniziata con i partiti antisistema che vanno a vincere le elezioni si chiude con i lucchetti dell’establishment”.

  

Per il vicedirettore della Repubblica, Francesco Bei, “il centrodestra è come le famiglie di parenti serpenti che litigano tutto l’anno, non si parlano, salvo fingere di volersi bene al pranzo di Natale. Il centrodestra non esiste più”. Quale la data del decesso? “Nei fatti è morto una prima volta nel 2018 quando Salvini decide di entrare al governo con i Cinque stelle, mentre FI e FdI restano fuori; una seconda volta è morto quando, all’indomani della crisi del governo Conte, Lega e FI decidono di dar vita insieme al Pd al governo Draghi e Meloni resta fuori. Con l’elezione del Quirinale c’è la certificazione di un fatto già consolidato. Mi stupisco di chi si stupisce. Il centrodestra, dopo essere stato berlusconiano, dopo essere stato sovranista, deve decidere che cosa vuole essere. Non si può andare contemporaneamente a Roma e a Milano perché si resta fermi. Se vai a caccia di due lepri contemporaneamente non ne prendi nessuna”. Fuor di metafora? “O si prosegue lungo il percorso che ha portato alla nascita del governo Draghi, con un centrodestra europeo e liberale, normalizzato, oppure si segue la strada di Orbán. La scelta tocca a Salvini: Draghi oppure Orbán”.

   

E la leader di FdI? E’ in crescita. “Meloni persegue un disegno diverso, FI resta nel Ppe, a stare in mezzo al guado è la Lega. La Lega che, ricordo, ha votato l’esecutivo Draghi, Metsola (del Ppe) presidente del Parlamento europeo, l’obbligo vaccinale per gli over 50, il green pass base e quello rafforzato… è come se Salvini avanzasse con lo sguardo rivolto indietro. Meloni crescerà ancora nei consensi ma saranno voti come quelli nel Pci prima della caduta del Muro di Berlino”. In che senso? “Quei voti erano l’espressione del fattore K che impediva al Pci di andare al governo qualsiasi fosse il suo risultato elettorale. Ora siamo in presenza del fattore S, dove ‘s’ sta per sovranisti: Meloni può arrivare pure al venticinque per cento ma con quella piattaforma politica non può pensare di essere nominata presidente del Consiglio di un paese dell’Occidente europeo. Con quelle alleanze, dallo spagnolo Abascal agli altri, è difficile”. Ma così non andrà mai al governo. “Non so quanto le interessi governare. Per governare ci vuole un’alleanza che comprenda il centro. Salvini lo ha capito, da questo punto di vista è un passo avanti a lei ma gli è mancato il coraggio per compiere l’ultimo tratto. Lo dimostra come ha gestito la partita del Quirinale, intrappolato tra due obiettivi incompatibili: da una parte, la pretesa di tenere unito il centrodestra con Meloni all’opposizione, dall’altra, la pretesa di eleggere un capo dello stato con un accordo interno alla maggioranza di governo. Alla fine, è prevalso il secondo”.

  

E sulla pandemia? Nella Lega i No vax sono stati resi ininfluenti. “Non c’è dubbio. Le regioni governate dai leghisti sono in vetta alle classifiche per numero di vaccinazioni. C’è una Lega di governo che ha dimostrato di avere personale politico capace. Bisogna ammettere che c’è stata un’evoluzione. Ricordiamoci che Salvini, all’inizio dell’emergenza sanitaria, andava ai convegni negazionisti, adesso il cambiamento è innegabile. Non si è messo di traverso neanche sull’obbligo vaccinale per gli adulti. Meloni invece, nonostante sia personalmente vaccinata, ha deciso di rappresentare i No vax in Parlamento. Il partito dei No vax in Parlamento è Fratelli d’Italia”.

  

Il partito repubblicano stile Usa si farà? “Mi sembra lo stesso riflesso pavloviano di quando il centrosinistra, in crisi, guarda all’estero. Un tempo c’era la terza via, nei decenni gli esponenti della sinistra si sono ispirati a Blair, a Obama, ora al Portogallo di António Costa… Quella di Salvini mi sembra un’uscita estemporanea dettata dalla necessità di uscire dall’angolo in un momento di difficoltà. Poteva essere una prospettiva al tempo della Casa delle libertà, quando si discuteva di una fusione tra FI e An”.

  

Forse molto è legato alla legge elettorale in vigore nel 2023. “Se prevarranno le spinte verso il proporzionale, l’idea di un contenitore unico di centrodestra scomparirà. Se resta il Rosatellum, invece, potrebbe essere il modo di mettere insieme FI e Lega con un approdo finale della Lega nel Ppe. Ma è quello che vuole Salvini? Non si capisce ancora, fino adesso lo ha escluso. E’ difficile pensare a un partito unico quando in Europa si sta in famiglie politiche diverse. Se la Lega entrasse nel Ppe, Salvini si candiderebbe naturalmente a essere l’erede politico di Berlusconi”. Ma come sono i rapporti personali? “Certamente migliori quelli con Berlusconi. Da notare che, dopo la settimana terribile del Quirinale, Salvini ha fatto visita a Berlusconi dopo l’uscita dall’Ospedale San Raffaele. Il circolo privato berlusconiano coltiva ottimi rapporti con Salvini”.

  

E sull’atlantismo? “Resta un tema cruciale. Se guardiamo alle ultime elezioni quirinalizie, vediamo quanto ha inciso negativamente l’essere russofilo sulla candidatura di Franco Frattini. Ha espresso opinioni talmente imbarazzanti su Putin che in un momento di massima crisi con la Russia l’Italia non si poteva permettere un presidente della Repubblica di tal guisa. Va detto che la vicinanza alla Russia viene fatta pesare più a Salvini che a Meloni. In passato, il leader della Lega ha siglato una sorta di patto politico con Russia unita, Meloni invece non è mai stata accusata di essere una quinta colonna dei russi”. 

  
Questa “cosa” che verrà rischia di apparire un’operazione “top-down”, tra ceti dirigenti, senza ancoraggio popolare? “Assolutamente sì. Il centrodestra in Italia, per come lo abbiamo conosciuto nell’era pre Covid, è stato un centrodestra popolare, capace di grandi mobilitazioni dal basso. Pensiamo a Pontida, ai raduni in piazza San Giovanni, alle folle oceaniche ai comizi di Berlusconi… Sono stati pubblicati dei saggi sul corpo del leader, Berlusconi. Adesso sembra che questo rapporto di popolo si sia spezzato. L’interrogativo sulla capacità di mobilitazione dal basso del centrodestra è legittimo. Un tempo il centrodestra aveva anche dei think tank, delle fucine intellettuali, pensiamo a Urbani, a Colletti, a Giuliano Ferrara. C’erano riviste, c’era una certa effervescenza ideale. Adesso devono chiamare Steve Bannon. Dove sono i Cassese di centrodestra?”. La leadership di Salvini è in discussione? Vede possibili successori? “No, Salvini è e resta leader. Nessuno ha il coraggio politico né la forza di sfidarlo apertamente. Né Zaia né Fedriga né tantomeno Giorgetti sono dei leader politici, sono dei buoni amministratori o al massimo dei numeri due”.