(foto LaPresse)

Il draghicidio è la sconfitta della politica

Claudio Cerasa

Nomi, candidature, bluff, rischi sistemici e opportunità perse. Cosa c’è dietro la paura di avere Draghi e che differenza c’è tra la vittoria dei politici e la vittoria della politica. Guida a un inganno

La differenza è sottile ma anche cruciale: un conto è la vittoria dei politici, un altro è la vittoria della politica. Negli ultimi anni, il Parlamento italiano ci ha abituato a sorprese incredibilmente positive, a volte ci ha regalato persino soddisfazioni mica male, e non è affatto improbabile che alla fine della fiera l’Italia si ritrovi ad avere un buon successore di Sergio Mattarella, capace cioè di garantire all’Italia tutte le coordinate non negoziabili di cui ha bisogno la settima potenza industriale del mondo: europeismo, atlantismo, pragmatismo, garantismo, amore per la Costituzione, rispetto per i trattati, argine contro ogni estremismo. E’ possibile dunque che tra oggi e domani il nome che si ritroverà il nostro paese come tredicesimo presidente della Repubblica abbia tutti i requisiti per essere un presidente di cui non vergognarsi e di cui essere persino orgogliosi (Casellati no, grazie).

    

Ma allo stesso tempo è molto difficile non leggere nel fuoco di fila che si è andato a scatenare negli ultimi giorni sul nome di Mario Draghi un equivoco importante che merita di essere illuminato. La politica che in modo plastico ha lavorato per sabotare la candidatura di Mario Draghi è una politica che, volontariamente o involontariamente, ha scelto di fare tutto ciò che era in grado di fare per evitare di allungare la parentesi di Draghi per i prossimi sette anni. E lo ha fatto non, come spesso si racconta, per provare a tenere saldo Draghi a Palazzo Chigi, per proteggere il suo lavoro, per non deviare il percorso della nave e per tentare addirittura di scommettere su Draghi come presidente del Consiglio nella prossima legislatura.

 

Lo ha fatto invece per provare ad affermare un principio che, viste le sfide che ha di fronte a sé l’Italia nei prossimi sei anni, suona pericoloso: provare a rendere reversibile il percorso imboccato dall’Italia negli ultimi mesi trasformando un argine contro l’antipolitica come Draghi in un nemico della politica.

 

Se è vero, come si è detto spesso negli ultimi tempi, che i dieci mesi di Draghi a Palazzo Chigi hanno aiutato la politica a tenere lontano dai palazzi del governo i peggiori istinti anti casta – andando a cancellare passo dopo passo alcune delle oscenità prodotte nella stagione gialloverde, andando a smussare gli angoli del giustizialismo grillino, andando a moderare gli istinti antieuropeisti della Lega, andando ad arrotondare le spigolature xenofobe di un pezzo di centrodestra, andando a disinnescare le mine protezionistiche sparpagliate qua e là nel vasto arco parlamentare – è altrettanto vero che contrapporsi all’idea che una personalità come Draghi possa andare a rappresentare l’Italia nei prossimi sette anni, proiettando su un periodo molto lungo il bollo di affidabilità incarnato dall’attuale presidente del Consiglio, significa voler affermare un principio pericoloso che grosso modo suona così: fermi tutti, abbiamo scherzato; la rotta formidabile che l’Italia ha imboccato negli ultimi dieci mesi è una rotta che vogliamo limitarci a percorrere per i prossimi sette mesi, esponendola a ogni rischio di logoramento che corre una premiership quando le lancette della legislatura iniziano a fare più velocemente tic tac.

   

Nella giornata di ieri, su più fronti, si è cercato di ricomporre il quadro. Non solo per garantire alla maggioranza di governo di non dividersi ma anche per evitare di ritrovarsi nel giro di poche ore all’interno di uno scenario che ieri pomeriggio – quando il centrodestra sembrava tentato di fare quello che difficilmente oggi avrà il coraggio di fare: la prova di forza con un suo candidato di parte per contarsi – non appariva del tutto improbabile, ovverosia un futuro prossimo dell’Italia senza Draghi né a Palazzo Chigi né al Quirinale. E lo si è fatto anche per provare a fare ciò che fino a ieri sera pareva difficile da realizzare: riallacciare i fili della candidatura di Draghi evitando il patatrac. Non solo per dare all’Italia il garante che si merita  ma anche per evitare di dover fare i conti con uno scenario che in pochi potrebbero permettersi di affrontare: guardare un giorno i propri elettori, e i propri grandi elettori, spiegandogli che il draghicidio è tutto merito loro. Un conto è la vittoria dei politici e un altro è la vittoria della politica. Buon voto a tutti.

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.