Riavviare un governo finito per provare a modernizzare l'Italia

Claudio Cerasa

I nemici del premier sono più deboli, ma il draghicidio può avvenire anche per autocombustione. La trappola dell’unanimità e le svolte rimandate. Il governo Draghi deve dimostrare di essere più vivo dei partiti

Cambiare poco per cambiare tutto. Una volta conclusa la partita quirinalizia, l’attenzione di molti osservatori sarà con ogni probabilità catturata da un tema che tradizionalmente appassiona chiunque si occupi di politica ed è comprensibile che per diversi giorni le notizie sugli sconvolgimenti nei partiti prodotti dalla rielezione di Mattarella offriranno elementi utili per scrivere buone appendici al romanzo Quirinale. Prima ancora di occuparsi della salute dei partiti, con annesso bar sport, l’attenzione degli osservatori dovrebbe essere però rivolta al monitoraggio di un’altra cartella clinica che negli ultimi mesi, salvo casi particolarmente virtuosi, non ha offerto valori incoraggianti: il governo Draghi.

 

La campagna di Mario Draghi per il Quirinale ha avuto un ricasco naturale su alcune dinamiche del governo. E da inizio novembre – più o meno da quando il sottosegretario Garofoli invitò i ministeri ad attrezzarsi per una nuova fase all’interno della quale si sarebbe dovuto passare dall’approvazione delle riforme all’attuazione e alla manutenzione delle riforme – molte scelte dell’esecutivo sono state guidate da un’attenzione alla ricerca spasmodica della mediazione e dell’unanimità.

 

Non sempre è andata così, naturalmente, e ci sono almeno tre decisioni del governo che possono essere lette anche con la chiave del decisionismo divisivo, pensiamo alla scelta di prorogare lo stato d’emergenza, pensiamo alla scelta di introdurre l’obbligo vaccinale per gli over 50, pensiamo alla scelta di avviare le trattative per la vendita di Ita a Lufthansa e Msc.

   

Ma in altre occasioni bisogna riconoscere che il governo, negli ultimi mesi, si è comportato spesso come se fosse in carica per gli affari correnti. Ha evitato di intervenire in modo incisivo sulla riforma di “quota 100”. Ha evitato di scardinare i meccanismi più distorsivi del Reddito di cittadinanza. Ha evitato di intestarsi una riforma fiscale con i fiocchi, delegando l’intero  compito al Parlamento. Ha prorogato, seppur riducendolo, il “bonus facciate” che il governo aveva promesso di cancellare. Ha prorogato il superbonus del 110 per cento che Draghi voleva ridurre perché troppo costoso e distorsivo e che i partiti invece gli hanno imposto di estendere ancora. Ha provato a riformare il catasto fermandosi timidamente di fronte ai primi rimbrotti della politica. Ha rinunciato a riformare come avrebbe potuto e dovuto il Csm. Ha evitato di intervenire in modo incisivo sulle concessioni e dunque sulla concorrenza. Ha moltiplicato la burocrazia intorno all’utilizzo del green pass arrivando al punto di dover ricorrere nell’ultimo dpcm alla ciambella di salvataggio delle Faq.

 

Draghi, come ha fatto capire ieri ai ministri durante il primo Consiglio dei ministri post Quirinale, ha certamente intenzione, come si dice in questi casi, di “cambiare passo”. Ma la verità è che il bis di Mattarella costringe anche lui a studiare un modo per trasformare il suo mandato in qualcosa di diverso da quello che rischia di essere: un governo tecnico, ostaggio di partiti con la testa alla campagna elettorale, tenuto in vita da un manipolo di peones desideroso di non andare a casa e incaricato di gestire in modo ordinato la progressiva uscita dell’Italia della pandemia stando attento a non deludere la Commissione europea rispetto al raggiungimento dei 102 obiettivi-target previsti dal Pnrr per l’anno in corso.

   

L’esito della partita del Quirinale, come abbiamo scritto, indebolisce i diversamente amici di Draghi, da Giuseppe Conte a Matteo Salvini, toglie al M5s e alla Lega parte del loro potere contrattuale e mette Draghi di fronte a una scelta importante rispetto a quale strada imboccare. La prima strada, quella del governo che altro non fa che essere il garante del Pnrr, cosa saggia che però non basta, rischia di condurre il premier verso un tragitto a ostacoli che potrebbe produrre un draghicidio per autocombustione.

  

La seconda strada, più ambiziosa, è quella di entrare nella stagione della costruzione del futuro passando dalla fase del “non si può non fare così” (insindacabilità) alla fase del “vi spiego perché faremo così” (sindacabilità) e facendo fare al governo un passaggio di fase necessario: non più il governo che salva l’Italia ma quello che prova a modernizzarla. Niente unanimità, meno regole, più visione, più futuro. La corsa verso il Quirinale si è conclusa con un draghicidio sventato. Ma per evitare il draghicidio per autocombustione il governo dovrà avere la forza di dimostrare se è o no più vivo dei partiti.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.