La “guerra dei “Signori G”: Gigino e Giuseppi

Il tweet bombing contro Di Maio

Maurizio Crippa

Vite parallele nel M5s. Il ministro degli Esteri partito populista ha imparato in fretta la politica e sa navigarci con una prospettiva sensata. L'ex Avvocato del Popolo Conte è scivolato sempre più nel populismo sterile e rancorso. Fino alla pessima settimana del Quirinale, strizzando l'occhio a Salvini

“Io mi chiamo G / Anche io mi chiamo G”. Ci vorrebbe Gaber per raccontare le alterne fortune dei due Signor G ora divenuti nemici, anzi prossimi alla resa dei conti: Giggino e Giuseppi. Non il ricco e il povero, come nella canzone di Gaber, ma vite parallele sì. Luigi Di Maio era entrato nel Palazzo con “male annodata la cravatta dell’Upìm” (Jannacci). Un turista della scatoletta di tonno, un re degli strafalcioni. Ma mentre i suoi compagni d’apriscatole si impantanavano nell’insignificanza, mentre il futuro gerarca minore si perdeva e s’addormentava in Aula, lui aveva già capito che bisognava studiare, presentarsi meglio. Magari studiare no – per la scuola Radio Elettra basta Bossi – ma almeno osservare, imparare le movenze e parvenze degli altri. Cioè la politica, capire in fretta come gira. Con applicazione di autodidatta non privo di risorse. Mentre il suo ex amico Dibba, inadatto a capire, se ne andava a fare l’agriturista in Guatemala, lui diventava vicepremier e persino ministro sulla Via della Seta. Il talento di Mr. Ping, che assorbe la politica come una spugna, che scarta come un cavallino.

    
E i due piatti della bilancia iniziano il saliscendi. Giuseppe Conte al piano più alto del Palazzo c’era arrivato senza fare le scale, calato via miracolo di studio legale, mistero romano. Arrivò con la pochette e si presentò come Avvocato del Popolo, sbagliando subito attribuzione e visione, inseguendo il populismo che invece doveva correggere. E una verbosità da Magna Grecia destinata a peggiorare di conferenza stampa in comizietto. Tra i magheggi di Casalino e le ambizioni smodate che i Travaglio e i Bettini gli suonavano all’orecchio col flauto. Intanto Di Maio si affidava alla scuola silenziosa di come stare al governo, e al momento della mossa del cavallo di Renzi, Giggino fu pronto a infilarsi una cannuccia di palude in bocca e restare lì, a scivolare sotto il pelo dell’acqua; invece Conte a fare l’offeso, a puntellassi fino all’ultimo Ciampolillo. Fino alla conferenza in piazza col tavolino da fruttarolo, fino ad annunciare sdegnoso il ritorno alla professione, fino ad accettare per gola l’incarico di nuovo leader del MoVimento, fino a  iniziare una guerriglia spuntata contro l’usurpatore Draghi. Lo statuto e le nuove regole, ma controllando sempre meno la creatura che Grillo gli aveva senza troppa convinzione affidato né la ciurma dei parlamentari, che sta con Di Maio.

  
Così il ragazzo arrivato con la schiera dei populisti arruffati della prima ora s’è trasformato in politico di medio cabotaggio (e alla luce della settimana trascorsa, non di ultimo talento), in un vispo capitano di rimorchiatore pronto ad attaccare il vascello dove si balla meno. Mentre l’avvocato che doveva riportare la politica là dove l’aveva lasciata Moro è finito a fare la guerriglia populista. A dare spallate senza costrutto in coppia con Salvini, puntando al Colle ma sognando la vendetta contro Draghi. Il Fatto che da mesi lo tratta come fosse Churchill, anzi Churchill più Padre Pio, ha sguinzagliato contro Di Maio il revenant del Guatemala con un’intervista che sputava bile e votava Conte, “persona perbene e leale”.

 

Vorrebbero addirittura processare Di Maio per tradimento, per non aver sostenuto la linea di Conte (e Salvini), in dissenso con la cabina di regia e in violazione di uno Statuto che è nato già carta straccia. Cioè per aver fatto politica, nel gioco del Quirinale, come richiedono intelligenza e forma, mentre Conte sparava: “Alla fine il 5 stelle sarà la forza più compatta, soprattutto se riusciremo a far convergere le altre forze su un profilo femminile”, eccetera. Marameo. E s’è arrivati ieri alla vergogna – che senz’altro non è colpa di Conte, ma di qualche tonton macoute che sta dalla parte sua sì – di scatenare un tweet bombing contro Di Maio, roba da “bestiolina”, con l’hashtag #DiMaioOut, per chiedere l’espulsione del ministro dai  Cinque stelle. Così che Luigi Di Maio, che pure nelle campagne d’odio grilline c’è cresciuto, ora ne uscirà purificato, ancor di più di quando chiese scusa per il giustizialismo. Un politico normalizzato e sveglio. Ma anche Conte si chiama G., direbbe Gaber: certo, però lui ormai assomiglia più a D., ad Ale Dibba.
 

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"