(foto LaPresse)

Il tumulto dei peones che vogliono umiliare Draghi

Salvatore Merlo

“Non lo votiamo manco morti, Salvini e Letta se lo mettano in testa”. Scene dal Parlamento

Sotto il tendone di plastica e alluminio montato nel cortile della Camera, dove  deputati, senatori e consiglieri regionali fumano anche se non si potrebbe, in questo luogo di dissipata concentrazione, a tarda sera, oltre al puzzo di sigaretta e a un vago timore di mega contagio da coronavirus, rimane solo quella dimensione di disprezzo goliardico che è tipica degli ambienti chiusi. Un po’ come nei collegi, dove i secchioni, in questo caso i Mario Draghi, insomma i più bravi, vengono messi alla berlina con il cappello dell’asino dai compagni indisciplinati. “Draghi non-lo-vo-tia-mo, è chiaro?”, dice ad alta voce  Tommaso Cerno, senatore del Pd, mentre alla buvette  soppesa con lo sguardo una piadina che deve aver visto tempi migliori.

Intanto si comincia a votare, e tra i primi a depositare il loro foglietto nell’urna quirinalizia ci sono Noja e Testamento. Un presagio? Poco più in là ecco Gian Marco Centinaio, colonnello della Lega e sottosegretario, uno importante. Raccoglie a tulipano le cinque dita della mano destra e altalena il pugno. “Quello non può pensare di prenderci sempre a schiaffi e che poi lo votiamo felici”, dice. Dove “quello” è il presidente del Consiglio e candidato al Quirinale, niente meno. “Tanti dei nostri non lo voterebbero manco morti”, aggiunge il gran leghista. Poi Centinaio allarga le braccia, l’eterno possibilismo della vita: “Certo, se poi ce lo chiede Salvini...”. E ovviamente Mario Draghi non è affatto obbligato a conoscere la vasta e tumultuosa epopea del tradimento parlamentare, le sottili e crudeli tecniche inaugurate sin dagli albori della Repubblica. Ma negli stessi istanti in cui lui, “fuori” dal Parlamento, parla con Letta e con Salvini, proprio mentre attorno a lui i leader dei partiti tessono la trama della sua elezione, mentre insomma Salvini gli consiglia addirittura di telefonare a Silvio Berlusconi per conquistarlo, ecco che “dentro” al Parlamento va in scena tutto un altro film. “Mezzi tecnici” li chiamava  Aldo Moro. “Pugnale, veleno e franchi tiratori”, traduceva Donat-Cattin. E’ un tumulto, che allude al cecchinaggio, agli amici del nemico e ai nemici dell’amico.

 
Alle 15 arriva l’ordine di scuderia ai grillini. Su WhatsApp. “Bisogna votare scheda bianca”. Segue precisazione: “Significa non mettete nessun nome”. Non si sa mai nel partito di Bonafede e Toninelli. Così alla fine, quando Roberto Fico termina la litania delle schede bianche di questa prima fumata nera, proprio sotto lo sguardo di Maria Elisabetta Casellati, la presidente del Senato che indossa al petto una gigantesca spilla d’oro, una specie di enorme foglia più pesante delle medaglie del generale Figliuolo (le malelingue sostengono l’abbia  usata anche come punitivo proiettile da lancio per collaboratori lavativi), ecco che proprio sul finale si manifesta in Aula il vero protagonista della giornata: Pier Ferdinando Casini. “Occhio che stanno salendo le quotazioni di Draghi”, gli dicono. E lui, con distacco: “Non mi faccio illusioni. Il marito è sempre l’ultimo che viene a sapere di essere cornuto”. S’è vestito di un blu che la luce rende elettrico e in certe angolazioni iridato. Sicché è impossibile non notarlo mentre attraversa il Transatlantico e stringe almeno trecento mani, in una specie di danza. Il guardare e il farsi vedere, il concedersi e il ritirarsi, la battuta e il rimando. L’allusione. Casini sembra il punto mediano dove tutto l’ingorgo politico va a defluire. Chissà. C’è chi già lo chiama “presidente”. Mai dire mai. D’altra parte in un corridoio laterale c’è Matteo Renzi, che lavora anche per lui, mentre fuori gli altri segretari lavorano per Draghi. Francesco Bonifazi, il  senatore e factotum renziano, prende sottobraccio il presidente della Toscana, Eugenio Giani: “Vieni un attimo che Matteo ti vuole parlare”. Ed è uno. Poi tocca a un peone grillino. E sono due. Poi a un senatore  di Forza Italia... e tre. Alla fine saranno almeno una decina, forse di più. Vestito d’un doppiopetto marrone su mocassini con le nappe, Bonifazi più che il Leporello di Renzi sembra il Conte Uguccione di “Mai dire gol”. Ma è efficiente. Altroché. “I segretari possono fare quello che vogliono ma Draghi ha più franchi tiratori di Prodi, non 101 ma 401”, dice un deputato del M5s, Riccardo Tucci. Non c’è un’argomentazione politica, un progetto, una diversa idea per l’Italia. Ma un  tumulto goliardico, forse il gusto di nanificare Gulliver. Il Parlamento di qua, i leader di là. E Draghi nel mezzo.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.