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Il senso dei partiti alla prova del voto per il capo dello stato

Giuliano Ferrara

Chi mette in campo agguati vecchio stile, nomi civetta e candidature improbabili lavora per la definitiva sepoltura dell’eredità dei partiti politici, non per la loro vendetta storica

Tutti oggi dicono, smentendo una mentalità diffusa per decenni, che i partiti sono un elemento essenziale che struttura la Repubblica. Che questo dato è iscritto nella Costituzione e nella nostra storia, e che l’Italia fu, con molte pecche, modernizzata e organizzata come democrazia, nonostante la Guerra fredda e le tremende divisioni dell’epoca, grazie all’attività e all’identità dei partiti. Il fallimento della campagna iniziatasi con le inchieste su corruzione e mafia di Milano e Palermo, oltre trent’anni fa, consiste per giudizio ormai comune nel fatto che l’ordine giudiziario dispiegò la sua progressiva, immensa forza, in un processo ai partiti che travolse anche lo stato di diritto e sopravanzò di gran lunga la ricerca di responsabilità individuali nelle malversazioni legate al funzionamento della politica, generando uno squilibrio estraneo alla Costituzione nella divisione tradizionale dei poteri.

  

Ipartiti non sono scomparsi per il crollo delle ideologie, ridimensionate dal grande  sisma legato alla fine del comunismo con il crollo del Muro di Berlino, perché alle vecchie bandiere non è succeduto solo un praticonismo opportunista senza culture di riferimento; le culture progressista, conservatrice, liberale, radicale, con un’area cattolica disposta trasversalmente su più fronti, esistono tuttora e hanno fronteggiato in modi diversi fenomeni vari di populismo e di demagogia antipolitica. Di fronte ai fallimenti del giustizialismo e dei ceti di potere vagamente assemblati sulla sua onda è riemersa prepotente l’idea che sia necessario avere strutture di selezione e formazione della democrazia, per la costruzione di classi dirigenti dotate di autorevolezza, competenza, esperienza e capacità politica.

  

Ora questi riconoscimenti di valore e di senso al sistema dei partiti sono alla prova dell’elezione del capo dello stato. Alcuni pensano che bisogna ripescare vecchie tattiche parlamentari, spesso incentrate sulle arcaiche regole di una campagna elettorale coperta, che esclude i nomi e punta alla “chiamata” cosiddetta non divisiva, tattiche per lo più incarnate dal ruolo dei franchi tiratori, i cui comportamenti sono variamente intesi come un agguato carico di avidità di potere o come una espressione della libertà di coscienza senza vincolo di mandato. Ecco, sembra ovvio pensare l’opposto. Nel vecchio sistema, prima della crisi distruttiva dei partiti, la pretattica e le sinuose vicende quirinalizie erano fondamentalmente sotto controllo, tranne nel caso di Scalfaro che fu eletto a sorpresa sull’onda di Tangentopoli e per tagliare un nodo che si stava stringendo come un cappio al collo della Repubblica con le stragi mafiose e l’assassinio di Falcone e dei suoi. Oggi riprodurre quello schema non significa riabilitare i partiti contro populismi e tecnocrazie, significa bensì esporre quel che resta del prestigio o dell’affidabilità delle classi dirigenti a un bagno di sangue.

 

Berlusconi fa la sua corsa legittima, rompendo le arcaiche regole, verso l’impossibile, che per lui notoriamente non esiste, con la riserva di ritirarsi in favore di un accordo istituzionale se le condizioni risultassero proibitive. Chi vuole realizzare un accordo largo sulla unica seria candidatura di unità, derivata dalla missione attribuita al presidente del Consiglio da Sergio Mattarella e da una enorme maggioranza politica, che è quella di Draghi, per quanto non esplicitata e coperta dalle vecchie pratiche, deve partire da quella riserva berlusconiana, impersonata dal suo unico vero consigliere politico, Gianni Letta. Chi si dispone sulle vie tortuose d’un tempo così diverso da questo, mettendo in campo agguati vecchio stile, nomi civetta, candidature improbabili e di risulta il cui risultato sarebbe l’esplosione del punto di unità che ha dato un compimento alla legislatura e una speranza di ripresa al paese, deve sapere che lavora per la definitiva sepoltura dell’eredità dei partiti politici, non per la loro vendetta storica.

       

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.