il retroscena

Franceschini teme lo spettro del Cav., Orlando ha dubbi su Draghi. E Letta sceglie lo stallo sul Quirinale

Valerio Valentini

"Attenti che, senza un'iniziativa del centrosinistra, Berlusconi può farcela", avverte il ministro della Cultura. La sinistra dem allineata con Guerini nel paventare il rischio elezioni connesso al trasferimento del premier al Colle. Il segretario del Pd vede in Draghi la sola alternativa al caos, ma per ora attende

Il più allarmato dal timore che l’insostenibilità della posizione del centrodestra induca all’indolenza il Pd, e che questa possa finire  col legittimare ciò che apparentemente pare assurdo, è Dario Franceschini. Che ai suoi deputati, alla vigilia della direzione del partito, ha spiegato che non è il caso di prenderla troppo alla leggera, l’ipotesi Berlusconi. “Specie se noi non prendiamo un’iniziativa”. Speranza che però resterà delusa,  nel discorso odierno di Enrico Letta. Il quale, a scanso di equivoci, ha deciso di condividere in streaming la direzione, allargata ai 150 grandi elettori dem, con l’accortezza di chi  rende pubblico un dibattito al fine di disinnescarlo, come a chiarire   preventivamente che l’incontro è poco più che interlocutorio. E’ del resto quello che anche Lorenzo Guerini ha spiegato ai suoi parlamentari. Gli stessi che, nei giorni scorsi, sono stati  catechizzati a uno a uno da Luca Lotti, che ci ha tenuto a sottolineare l’importanza di “garantire la continuità dell’azione di governo in una fase che è ancora emergenziale”. Il che, evidentemente, segna una certa contrarietà degli ex renziani sulla candidatura di Mario Draghi. Condivisa non solo dal correntone riformista del Pd, maggioritario tra i gruppi parlamentari, ma anche da quell’Andrea Orlando che a tal punto è scettico sul trasferimento del premier al Quirinale che ai suoi compagni di corrente che invece sostengono la bontà del progetto draghiano dice, pungente, “sei diventato lettiano”

Perché in effetti sembra questo, a dispetto delle dissimulazioni del caso, lo scenario preferito da Letta. Se ne è accorto anche Giuseppe Conte. Che dell’ultimo incontro avuto col leader del Pd ha fornito ai suoi vicepresidenti un resoconto che suona più o meno così: Letta avrebbe prefigurato  un piano A (lasciamo consumare la candidatura di Berlusconi e poi convinceremo il centrodestra ad appoggiare un profilo a noi gradito, come Amato o Gentiloni) e poi un piano B (un profilo  sopra le parti e inattaccabile anche da destra). Al che il leader del M5s ha fiutato l’aria: “Il piano A di Letta è il suo piano B, e cioè Draghi”. 

Non che la cosa, però, emergerà oggi. Nel suo intervento d’apertura Letta si limiterà  a chiedere a direzione e parlamentari dem un mandato a trattare insieme alle due capogruppo, e a farlo nella consapevolezza che “nessuna coalizione ha  una maggioranza”, e che dunque qualsiasi candidatura di parte è accettabile. E di certo non lo è quella del Cav., tanto più dopo un vertice del centrodestra che ha prodotto un comunicato giudicato “deludente e preoccupante” dal segretario del Pd. Sarà anche attento, et pour cause, a fugare ogni dubbio sull’ansia di precipitare al voto anticipato: “La legislatura dovrà durare fino a scadenza naturale”, dirà Letta. Solo che per assicurarsi che questa raccomandazione suoni credibile alle orecchie dei suoi parlamentari, dovrebbe forse allontanare lo spettro di Draghi. Perché, come dice il gueriniano Alessandro Alfieri, “siglare preventivamente un patto politico  per definire un nuovo governo e un nuovo assetto fino al 2023 è facile a dirsi, non a farsi”.  

Ma in ogni caso non se ne discuterà oggi. Il Pd per ora danza sul posto, nell’attesa che gli accidenti tutt’attorno prendano una piega più chiara. E forse è questo, il vero cruccio non solo di quel Matteo Orfini, fermo sostenitore del Mattarella bis, che invoca “una maggiore intraprendenza del segretario”, ma anche di Franceschini. Il quale teme che proprio questo  attendismo del Pd, forse funzionale a far emergere le contraddizioni della destra, contribuisca a dare sostanza all’azzardo berlusconiano. Perché al Cav., ragiona coi suoi il ministro della Cultura dall’alto di chi gli umori di questo Parlamento li conosce come pochi, mancherebbero non più di 50 voti: ed essendoci tra Camera e Senato non meno di 150 elettori incontrollabili nel corpaccione grillino ed ex grillino, non è da escludersi che da Arcore sappiano convincere un terzo degli indecisi che contattano. E certo l’Aventino è un’opzione estrema, per scongiurare  imboscate. Ma, come un intimo del Cav. ha spiegato ai colleghi dem, “se voi uscite al quarto scrutinio per non votare Silvio, quello poi si ricandida pure al quinto, pure al sesto, e prima o poi in Aula dovrete tornarci”. Ed ecco che i rischi connessi al trasloco di Draghi al Colle appaiono, agli occhi di Letta, comunque i meno gravi tra quelli che s’intravedono dietro la cortina del caos incombente. 
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.