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Perché la spinta riformatrice di Draghi si è arenata sul Rdc

Luciano Capone

Perché in questa legge di Bilancio il governo non è riuscito a inserire alcun cambiamento sostanziale sul Reddito di cittadinanza?

Il commento più lucido e amaro sul Reddito di cittadinanza l’ha dato, su queste colonne, Cristiano Gori, uno dei massimi esperti di lotta alla povertà. “L’esito di una stagione di grande attenzione su questa misura è stato, paradossalmente, quello di spostare lo sguardo lontano dalle cose importanti”. Si è parlato cioè molto di “furbetti” e abusi, un aspetto del tutto marginale, e poco delle riforme strutturali degli evidenti difetti congeniti della Reddito di cittadinanza. E il fatto che in questa legge di Bilancio non ci sia alcun cambiamento sostanziale rende l’idea su quale sia, almeno su questo terreno, la reale spinta riformatrice del governo Draghi, data forse troppo per scontata dagli osservatori nazionali e internazionali. L’incapacità di raddrizzare questo programma nato storto è evidente dalla parabola del Comitato Scientifico per la valutazione del Reddito di cittadinanza, istituito dal ministro del Lavoro Andrea Orlando, che avrebbe dovuto suggerire i correttivi da apportare e il cui lavoro è stato praticamente ignorato.

 

Lo si era capito già dal fatto che il rapporto del gruppo coordinato da Chiara Saraceno è stato presentato quando ormai il governo aveva già chiuso la legge di Bilancio e deciso cosa (non) cambiare del RdC. E non che ci fosse bisogno di aspettare le conclusioni di questo gruppo di lavoro, dato che le proposte presentate dal comitato Saraceno riassumono i suggerimenti che negli ultimi due anni tutti gli osservatori e analisti hanno fatto. La mancata deliberazione da parte del governo non è pertanto dovuta alla scarsa conoscenza, e quindi alla necessità di approfondire, ma alla scarsa forza riformatrice. All’incapacità di superare le resistenze politiche di chi, nella maggioranza e nel governo, difende lo status quo.

 

Andiamo nel concreto. Tutti gli osservatori sanno quali sono le principali distorsioni genetiche del Reddito di cittadinanza: l’inadeguatezza a raggiungere chi realmente ha più bisogno (praticamente 1 beneficiario su 2 di Rdc non è povero e 1 povero su 2 non è beneficiario di Rdc); una scala di equivalenza che è molto generosa con i single e penalizza le famiglie numerose (quelle a maggiore rischio e intensità di povertà); criteri che escludono eccessivamente gli extracomunitari (che rappresentano una fetta ampia dei poveri); l’uniformità del sussidio che, non tenendo conto delle differenze territoriali, è troppo generoso con i poveri del Sud e penalizza quelli del Nord; soglie e meccanismi che scoraggiano l’occupazione, almeno quella regolare perché quella in nero viene indirettamente incentivata (perdendo un euro di sussidio per ogni euro guadagnato lavorando, i percettori di Rdc sono soggetti a un'aliquota implicita del 100 per cento).

 

In pratica nulla di tutto questo è stato toccato. C’è stato solo qualche cambiamento marginale, come la modifica in senso più restrittivo di ciò che rende “congrua” un’offerta di lavoro per i beneficiari. Non è un caso che le riforme apportate riguardino solo la definizione di criteri (quante offerte si possono rifiutare, a che distanza da casa può trovarsi il lavoro offerto, che tipo di durata e di contratto deve avere, etc.) e non il trattamento economico, eccezion fatta per la riduzione dell’assegno di 5 euro al mese in caso di rifiuto di un’offerta “congrua” che ha un valore più simbolico che sostanziale dato che le offerte congrue sono una chimera. E non è un caso, quindi, che queste modifiche non siano incisive. Perché per migliorare il RdC è necessario intervenire sul trattamento e sulla platea coinvolta: tagliare il sussidio ai single e a chi non è povero per aumentare i trasferimenti alle famiglie numerose e arrivare ai poveri ora esclusi; sarebbe necessario ridurre l’altissima aliquota marginale che scoraggia i beneficiari dal lavoro regolare e anche in questo caso servono risorse da recuperare nell’attuale disegno della norma; prevedere soglie diverse tra aree territoriali con costi della vita differenziati per riequilibrare le distorsioni tra nord e sud. Nel Meridione, attualmente, il RdC è in moltissimi casi tra l’80 e il 100% del salario medio di chi lavora. Tutte queste soglie e questi meccanismi rendono il RdC una trappola della povertà che lega le persone al sussidio e le allontana dal lavoro.

 

Ma perché, se le storture sono così evidenti, il governo non ha fatto nulla? Per il semplice fatto che non è stato capace di spostare i paletti politici del M5s che impediscono di toccare l’entità del trasferimento per qualsiasi beneficiario e pertanto ogni modifica può essere fatta solo aumentando le risorse. E così ha fatto il governo, che ha aggiunto 1 miliardo di stanziamento per coprire l’aumento automatico dei beneficiari ma senza fare alcuna riforma. Tra Mef e ministero del Lavoro erano stati fatti anche dei calcoli per ridurre l’erogazione base da 500 a 400 euro per redistribuire risorse a favore delle famiglie numerose, ma tutto è rimasto nel cassetto. Se però neppure il governo Draghi, con una missione così importante e una maggioranza così ampia, riesce a migliorare il RdC non si fa altro che rafforzare la convinzione, in patria e in Europa, che questo paese è incapace di riformare le cose che non funzionano, neppure quando ha tanti soldi da spendere.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali