il retroscena

"Mario, abbiamo un problema". D'Incà scrive a Draghi. E il Senato è una bolgia

Valerio Valentini

I senatori del M5s processano il premier: "Deve ascoltarci, così non ci stiamo più". I ministri contiani chiedono un vertice dopo gli inciampi nell'Aula di Palazzo Madama. Iv e centrodestra (compresa la ministra Stefani) votano contro il governo, i grillini meditano ritorsioni. I sospetti su Conte e la sua voglia di opposizione

Quando afferra dalla tasca della sua giacca il cellulare, Federico D’Incà ha la faccia stravolta di chi da ore cerca di ricomporre l’inconciliabile. “Mario, abbiamo un problema. Possiamo parlare?”. Intorno al ministro per i Rapporti col Parlamento, una manciata di deputati assiste alla scena. “Ma davvero i nostri al Senato minacciano di votare contro?”. Succede anche questo, infatti, in una giornata di delirio generale. Succede che proprio il M5s, che ha visto un pezzo di maggioranza (Iv, Lega e Forza Italia) andare contro il governo insieme a FdI, con Matteo Salvini e la sua ministra Erika Stefani nel ruolo di dissidenti per caso, minaccia allora ritorsioni scomposte. “Prendiamo atto che Renzi vuole fare una nuova crisi, e prepariamoci alle conseguenze”, li istruisce Stefano Patuanelli durante una riunione di gruppo improvvisata.

Solo che non si capisce se nelle parole del capo delegazione del M5s al governo ci sia più l’espressione di un timore o di un auspicio, l’accarezzare con favore una profezia autoavverante che di certo non dispiace a Giuseppe Conte. Il quale, ancora due giorni fa, mentre si consumava la sua disfatta sulla trattativa per la Rai, diceva che “così è impensabile andare avanti, se ogni giorno bisogna guardarsi da chi dovrebbe darci una mano”. Ce l’aveva con Luigi Di Maio, evidentemente, e anche con Mario Draghi: perché proprio lungo quell’asse tra il premier e il ministro degli Esteri, ancora una volta, Palazzo Chigi aveva trovato il modo di superare il veto che il presidente grillino voleva imporre. E allora ecco che quando Maria Castellone, neo eletta capogruppo al Senato, davanti ai suoi colleghi grida la sua indignazione, quasi tutti annuiscono: “Noi che siamo fedeli al governo veniamo bistrattati, e chi invece va contro l’esecutivo finisce ricompensato?”. 

Del resto il giorno del risentimento grillino, quello che segue all’umiliazione e alla dichiarazione d’orgoglio di Conte, trova il suo compimento più impensabile in una baruffa d’Aula in cui, più nel marasma generale che nel rispetto di studiatissimi tatticismi politici, il governo finisce tre volte sotto. Il primo inciampo è il più clamoroso e il più scombiccherato insieme. Perché l’emendamento che consentirebbe ai bus turistici di tornare al 100 per cento della capienza, era stato promosso da tutti: dal dem Margiotta e dal forzista Mallegni, dalla leghista Pergreffi e dalla grillina Di Girolamo. Quando il governo esprime parere contrario, è fin troppo facile per FdI tentare il resto del centrodestra, portandosi dietro anche Iv. Di lì l’Aula diventa un rodeo, l’incidente si ripete altre due volte, e succede di tutto. Succede che Erika Stefani, ministra appena uscita dal Cdm, arrivi in Aula per votare contro il governo di cui è membro, accompagnata dal suo leader Salvini. Succede che FI approvi un emendamento, che riguarda la nomina dei dirigenti delle Asl, su cui il ministro forzista della Pa, Renato Brunetta, aveva espresso riserve. “Evidentemente c’è chi ormai, pur stando in maggioranza, si sente all’opposizione”, sbotta la capogruppo dem Simona Malpezzi. La sua omologa di Leu, Loredana De Petris, è ancora più esplicita: “E’ quella robaccia di Italia viva che decide di assecondare il gioco della destra per metterci in minoranza sulla legge di Bilancio. Ma  l’innominabile  lassù, Mario Draghi, sappia che noi non accetteremo queste schifezze”. 


Ciò che De Petris evoca, però, i grillini lo chiedono esplicitamente al loro ministro, dopo aver minacciato di votare contro l’intero provvedimento in discussione. “Caro D’Incà, devi far sapere al premier che noi così non ci stiamo più”. Ed ecco allora che D’Incà scrive a Draghi. Un messaggio a cui segue una telefonata, un rapido chiarimento con la promessa di vedersi con calma nei prossimi giorni, “perché oggi sono già impegnato fino a tarda sera”, confermando la volontà di prestare “massima attenzione” alle istanze dei partiti di maggioranza, “nell’intento  di trovare sempre una sintesi”.

Solo che qui tutto s’ingarbuglia di nuovo. Perché se davvero volessero trovare la pace, i grillini al seguito di Conte, allora non fomenterebbero una rissa strumentale sull’assegnazione del relatore alla legge di Bilancio, facendo uno sfregio ai loro stessi alleati di Leu e del Pd, che avevano già convenuto sul nome del bersaniano Vasco Errani.  Né si registrerebbe la sorpresa del capogruppo alla Camera Davide Crippa, convocato mercoledì al Senato da Conte per presenziare alla piazzata contro la Rai, e tornatosene  a Montecitorio con l’imbarazzo di chi dice ai suoi colleghi che “non è così che si doveva reagire”. Il sospetto, insomma, è che in questa grande confusione sotto il cielo draghiano, Conte e i suoi pretoriani considerino la situazione eccellente per fare quella che uno dei suoi vicepresidenti descrive come una mossa opportuna: uscire al più presto dal governo e poi, eventualmente, accettare il ritorno alle urne subito dopo l’elezione del nuovo capo dello stato. Fantasie? Di certo c’è che quando il grillino Vincenzo Santangelo, uscendo dall’Aula del Senato, si lamenta che “ormai è chiaro che c’è un’altra maggioranza, e noi di fatto siamo all’opposizione”, Vito Crimi, che gli è accanto, sorride compiaciuto, come chi abbia visto la luce. 

Di più su questi argomenti:
  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.