Matteo Renzi (foto Ansa)

Il brutto spettacolo dell'inchiesta Open

Giuliano Ferrara

Ipocrisia e livore. Un legittimo percorso politico, come quello di Renzi, non dovrebbe essere sottoposto a processo mediatico-giudiziario per aver cercato sostegno e denaro attraverso lo strumento, pure legittimo, di una fondazione

Non conosco le carte dell’inchiesta sulla Fondazione Open, a parte le indiscrezioni giornalistiche, e non le voglio conoscere, non ne ho il bisogno, non ne ho il dovere. So quello che tutti sanno. La Fondazione era uno strumento collaterale del movimento renziano, cioè una libera associazione di persone che condividevano, giuste o sbagliate, le idee e i programmi di riforma della sinistra e del suo maggiore partito, il Pd, elaborate e sostenute sotto la leadership di Matteo Renzi, un politico giovane venuto dal mondo cattolico fiorentino e dalla Margherita (una delle due correnti che diedero vita all’amalgama mal riuscito del Partito democratico). Renzi aveva guidato la Provincia di Firenze, poi aveva strappato Palazzo Vecchio alle nomenclature d’apparato, poi si era candidato alla guida del partito, e aveva perso lealmente, infine aveva vinto sulle macerie del corso politico di Bersani, aveva sloggiato Letta Jr. dall’esecutivo e ha governato per tre anni facendo qualche pasticcio e un sacco di cose interessanti, con la forza realistica del solito connubio fatale detto patto del Nazareno, fino a infrangersi contro un fronte variopinto, detto l’Accozzaglia, di nemici a vario e diverso titolo della sua idea di innovazione.  

 

A loro il 60 per cento dei soliti no referendari a una riforma costituzionale, a lui il 40 per cento dei sì. Un legittimo percorso politico, con le sue messe in scena alla Leopolda, con le sue alleanze sociali, con la sua grinta politicista (liste, comunicazione, classe dirigente degli affini detta cerchio magico), con i suoi errori e le sue sbavature, con i suoi eccessi, non dovrebbe essere sottoposto a processo mediatico-giudiziario per aver cercato sostegno e quattrini attraverso lo strumento, anch’esso legittimo, di una organizzazione collaterale come la Open, quali che siano i dettagli da azzeccagarbugli.

Si capisce l’inimicizia tra avversari di una casa che fu comune, sale del mestiere cui non dovrebbe mescolarsi il rancore personale, ma i Bersani e gli altri che sono andati dai magistrati fiorentini a spiegar loro con il cappello in mano che Renzi voleva tagliare le radici della sinistra buona e cara e cercava appoggi interni e esterni al partito per costruire una sinistra cinica e cattiva dovrebbero riflettere sull’assurdo della loro resa agli impiccioni del codice penale che vogliono trasformare in un’ombra corruttiva l’esercizio della responsabilità e della libertà politica in una carriera di partito e nella costruzione di un movimento. I Bersani, come i D’Alema e tanti altri, sostengono da tempo che senza i partiti una democrazia è mutilata, e oltre tutto non funziona, vivono un’epoca di spossessamento (per certi versi ben meritato) del parlamento e delle classi dirigenti elette, e di fronte a questo panorama di rovine fanno la festa e la forca a un percorso politico e ai suoi strumenti di lavoro, in un trionfo di ipocrisia stridente visto che sanno benissimo che senza quattrini non si fa politica, non si amministra il potere, non si vincono le elezioni.

Avrebbero dovuto tirare fuori il carattere e, convocati per testimoniare, avrebbero dovuto dire ai magistrati fiorentini che Renzi e la Open hanno fatto il loro mestiere, hanno svolto il loro ruolo, in opposizione a idee e programmi e magari a valori che sono i loro, in una Repubblica dei partiti che i partiti li ha sbaragliati e dissolti nell’orgia demagogica e populista degli ultimi trent’anni, con le vette che si conoscono dei tempi più recenti. Invece del carattere leale alle idee si è visto il livore consacrato alla distruzione della persona, un brutto spettacolo.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.