Il successo di Lo Russo a Torino apre la strada alla fase “draghiana” del Pd

Valerio Valentini

Il risultato delle elezioni per Palazzo civico cambia gli equilibri al Nazareno: il candidato del centrosinistra vince al centro

Fosse stato per Francesco Boccia, non si sarebbe neppure candidato. “Ma non c’è alternativa a questo Lo Russo?”, ha continuato a ripetere per settimane l’ex ministro quando la possibilità che lui avrebbe preferito, quello di un’intesa col M5s, sembrava ancora possibile. “Ma io ringrazio anche chi non ci credeva, in me”, sorride adesso il nuovo sindaco di Torino, con l’aria sollevata di chi può togliersi qualche sasso dalle scarpe, ma prova comunque, sabaudamente, a farlo con stile.


Di certo la tensione c’è stata, al Nazareno. E infatti due settimane fa – quando il risultato del primo, con l’insperato sorpasso del centrosinistra ai danni di Paolo Damilano, aveva fornito già un indizio chiaro sul compiersi degli eventi – Marco Meloni, il meno visibile e insieme il più ascoltato dei consiglieri di Letta, aveva fulminato con una battuta Boccia. “Hai visto che quel Lo Russo era una buona scelta?”.

Torino, perché la vittoria di Lo Russo apre la fase "draghiana" del Pd

Lo era senza dubbio, al netto del senno del poi, per chi predicava la necessità di denunciare il fallimento di Chiara Appendino. “E però c’è un quadro politico più generale di cui tenere conto”, insisteva il responsabile Enti locali del Pd. Il cui cruccio consisteva nel costruire anche a Torino, anche nella città in cui il M5s aveva dato così cristallina prova della sua inadeguatezza (e il 9 per cento racimolato al primo turno sta lì a dimostrarlo), la gioiosa macchina da guerra rossogialla. E poi, quando proprio aveva capito che far ricredere i vertici piemontesi del Pd sulla possibilità di una pacificazione demogrillina nel nome del rettore del Politecnico Guido Saracco era impossibile, Boccia era passato alla via dell’avvertimento perentorio, quasi della minaccia: “E va bene, vada per Lo Russo. Ma sappiate che se qui non si vince, poi andate tutti a casa”.


“E invece è proprio evitando ambiguità col grillismo che abbiamo convinto tanti elettori moderati che sarebbero stati tentati da Damilano”, dice Mimmo Carretta, segretario dem di Torino e probabilissimo prossimo assessore. “Il che non ha significato non riconoscere i nostri errori del passato”, osserva Lo Russo mentre s’avvia dal suo comitato elettorale di piazza Dalpiano verso Palazzo di Città, sapendo bene quando gli siano pesate le stimmate di “uomo di Fassino”, di chi cioè ha condiviso le colpe che portarono il centrosinistra sabaudo  alla disfatta del 2016. “Ma fare autocritica non significa rinnegare se stessi. Per questo abbiamo saputo fare proposte su ambiente,  periferie e diritti civili  – prosegue mentre annuncia che più della metà dei suoi assessori, compresa la sua vice, saranno donne – ma al tempo stesso parlare con cognizione di causa dei temi come crescita e innovazione che stanno a cuore al ceto medio di una città che da troppo tempo cresce meno di quanto dovrebbe”. Il che, nel concreto, ha voluto dire aprirsi al centro, consolidare le alleanze con Azione e Iv, con tutto quel mondo moderato che di fronte a una strambata filogrillina del Pd avrebbe forse scavalcato la barricata. “Anche per questo, con un centrosinistra in cui il Pd dialoga col centro senza soggezioni verso il M5s, Torino si offre  come paradigma anche a livello nazionale”, dice il senatore renziano Mauro Marino, che non poco nella sua città si è speso per cucire, nel dialogo tra dem e Iv, laddove altri volevano strappare.


Non che questo implichi una abiura dell’intesa col M5s nei piani del Nazareno. Se Lo Russo ha saputo guadagnare 28 mila voti rispetto al primo turno, una cifra equivalente a quella presa dalla grillina Valentina Sganga, vuol dire che all’elettorato grillino, e a quello di sinistra, ha saputo parlare senza la necessità di ottenere la benedizione di Giuseppe Conte, che anzi ha assecondato il risentimento della Appendino.  L’obiettivo del segretario resta quello di “restare ampi”, di  fare sintesi anche tra posizioni apparentemente inconciliabili. Ma se è vero che la fase che dovrebbe aprirsi ora, come Letta va ripetendo, è quella di un “Pd che offre massimo sostegno a Mario Draghi”, allora per certi versi la vittoria di Lo Russo – di quel Lo Russo che ha dimostrato che si può vincere pur essendo stato il più intransigente degli oppositori del grillismo – è perfino più significativa di quella di Roma. Perché dice che, nella ricostruzione ancora tutta da definire del nuovo Ulivo, in una fase in cui l’interesse del leader del Pd è di proporsi come “colui che può raccogliere il testimone di Draghi nel 2023”, con certi capricci del grillismo, con certe ostinazioni populiste di Conte, si potrà da qui in avanti essere assai meno accomodanti. Tanto più se  il capo grillino tornerà, come pare, a predicare la via del “terzismo”. E del resto lunedì prossimo, quando verranno nominati due assessori espressione del mondo centrista nella squadra del nuovo sindaco, stando almeno alle promesse fatte in questi giorni da Lo Russo, nessuno, nel Pd, si dannerà l’anima per l’opposizione che verrà dai Cinquestelle.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.