Lettera ai difensori (ipocriti) dello smart working nella Pubblica amministrazione

Renato Brunetta

Ma quale luddismo. Ma quale ritorno al passato. E’ ora di fare del pubblico impiego il motore della responsabilità

Il dibattito che si è aperto sullo smart working assomiglia a una commedia degli equivoci. L’equivoco primario è proprio il pomo della discordia, l’oggetto stesso della discussione: una modalità di lavoro che viene chiamata smart working, ma che senza adeguati cambiamenti organizzativi e digitali dei processi produttivi, non è smart working. Poiché in gioco c’è la vita quotidiana di milioni di persone, occorre fare chiarezza e riportare il dibattito su binari di realtà, lontano dalle percezioni soggettive, quando non interessate, e dalle opzioni culturali e ideologiche di ciascun osservatore, e soprattutto fuori dalla polarizzazione che aveva già visto contrapporsi tecno-entusiasti e tecno-pessimisti sulla Quarta Rivoluzione industriale. Lo dobbiamo non solo ai 3,2 milioni di dipendenti pubblici, i “volti della Repubblica” cui si deve la resistenza dell’Italia al Covid-19, ma anche ai cittadini, alle famiglie e alle imprese che meritano servizi di qualità, adeguati a un paese che sta crescendo a ritmi da boom economico e che ha bisogno di una Pubblica amministrazione che sia davvero l’architrave della ripresa. All’altezza della sfida.


Bisogna, dunque, partire da un dato di fatto, che pare ignorato dai fautori dello status quo emergenziale: quello che è stato sperimentato in massa nella Pubblica amministrazione italiana, a causa della pandemia che dal 2020 ha sconvolto il mondo, non è lo smart working inteso come filosofia manageriale e modello di organizzazione strutturato ispirato a flessibilità, autonomia e responsabilità. Piuttosto è una forma di lavoro domiciliare forzato, realizzata nel giro di pochi giorni trasferendo meccanicamente all’esterno delle amministrazioni alcune delle attività che prima venivano svolte in ufficio, e solo quelle che, nell’emergenza, potevano immediatamente essere delocalizzate in funzione dei processi e delle tecnologie esistenti, senza una scelta organizzativa e strategica di fondo. 


Nonostante gli innegabili meriti “sanitari” di questa soluzione, che ha permesso per quanto possibile la continuità dei servizi e ha tutelato la sicurezza dei lavoratori, ciò che è stato sperimentato non può certo definirsi né smart working nell’accezione manageriale classica, né lavoro agile secondo l’inquadramento normativo pre-pandemia come definito dalla legge 81/2017. Lo dimostra il fatto che si è proceduto a colpi di deroghe, innanzitutto con il venir meno della necessità dell’accordo individuale, e poi con eccezioni agli obblighi informativi e all’alternanza tra prestazione in presenza e prestazione da remoto. Deroghe che però sono state accompagnate dalla trasformazione per legge del lavoro agile da una delle possibili modalità di lavoro pubblico da incentivare nella Pa a “modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa” e poi a “una delle modalità ordinarie”. In sintesi: quella che nel nostro ordinamento era già una sperimentazione è prima diventata una sperimentazione di massa e poi elevata per legge al rango di modalità ordinaria del lavoro pubblico, senza che nel frattempo sia intervenuta alcuna reingegnerizzazione dei processi e alcuna digitalizzazione dei servizi. 

Non esiste ancora una piattaforma sicura dedicata allo smart working nella Pubblica amministrazione, l’interoperabilità delle banche dati è un processo in fieri, spesso i dipendenti sono stati costretti a lavorare ricorrendo ai propri computer e ai propri device. Un meccanismo talmente anomalo che persino su Wikipedia nella versione inglese, alla voce “telecommuting”, si fa riferimento allo “smart working” come una definizione usata in Italia per indicare un rapporto di lavoro con vincoli non definiti in termini di orari di lavoro e spazi: “In Italy, smart working is defined as an agreement between the parties with no precise constraints in terms of working hours or workplace and with the possible use of technology to enable the work to be performed”. Insomma, un self service working.

E qui vengo al secondo argomento ricorrente tra i difensori dello smart working: il suo utilizzo come grimaldello per avviare la rivoluzione organizzativa che si attende da anni e per eliminare la cattiva burocrazia. Può un banale e certamente più comodo lavoro da casa assolvere a questo compito? Dobbiamo essere sinceri: no. L’implementazione repentina legata all’emergenza sanitaria e alle connesse esigenze di distanziamento interpersonale ha portato ad annullare tutto il percorso operativo che era stato indicato nella legge 81/2017 e nella direttiva della Funzione pubblica n. 3/2017, oltre che le più recenti linee guide per la redazione dei Pola, i Piani organizzativi del lavoro agile. Nessuna azione di accompagnamento è stata possibile, nessuna sensibilizzazione e formazione specifica dei lavoratori. La definizione in termini di luoghi, tempi, strumenti della prestazione e di esercizio dei poteri datoriali in capo all’amministrazione è stata assente. Lo ha riconosciuto Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt: “In uno dei paesi con le maggiori rigidità organizzative e la minor presenza, come certifica l’Ocse, di pratiche di organizzazione innovative nelle imprese, sposare tesi deterministiche sui benefici certi del lavoro da remoto è come minimo azzardato”. E ancora: “Il lavoro da remoto inteso nell’accezione del moderno smart working non è una questione tecnologica, ma soprattutto organizzativa. E se le tecnologie si acquistano e si installano in poco tempo, l’organizzazione del lavoro richiede tempo e una mutazione dell’atteggiamento delle persone coinvolte”.

Il lavoro da casa durante l’emergenza Covid, dunque, non ha certamente consentito quei processi di trasformazione organizzativa nell’ottica della definizione di obiettivi prestazionali specifici e misurabili volti a riconoscere maggiore autonomia e responsabilità del dipendente, che invece dovrebbero essere al centro dell’adozione dello smart working. Per alcune fasi ha visto la mancanza di una alternanza con la prestazione in ufficio e nessuna attenzione ai tempi, al famoso diritto alla disconnessione, con i vantaggi e gli svantaggi, anche in termini di gestione dei carichi familiari, legati alla necessità di adibire una dimora privata al luogo di svolgimento principale dell’attività lavorativa, a cominciare dalla postazione per finire all’utilizzo di laptop e computer personali. Nessun coinvolgimento adeguato delle parti sociali è stato fatto affinché si contemperasse una prestazione di lavoro adeguata al rispetto dei valori e dei diritti dei dipendenti pubblici. Nessuna conoscenza acquisita nel tempo sul benessere del lavoratore e dell’ambiente di lavoro in cui opera è stata oggetto di ripensamento in chiave smart.

Una mera traslazione fuori ufficio delle logiche proprie della prestazione in presenza, ossia quello che è avvenuto durante la pandemia, contraddice sia la filosofia manageriale dello smart working sia gli stessi desiderata della direttiva che doveva dare implementazione al lavoro agile nella Pubblica amministrazione. La sperimentazione emergenziale ha portato a dover prescindere da una valutazione attenta delle diverse posizioni lavorative anche in termini di responsabilità e connessione tra le varie figure. Sono rimaste del tutto in secondo piano le finalità proprie dello strumento: il miglioramento della conciliazione vita-lavoro e l’aumento della produttività. 


Il terzo abbaglio, conseguente, riguarda il presunto aumento di produttività delle pubbliche amministrazioni. Chi produce statistiche sullo smart working emergenziale nella Pa da quali dati attinge? Al momento non possediamo una panoramica completa delle informazioni relative all’andamento della produttività collegata al lavoro agile nel 2020. E non la abbiamo per i motivi elencati sopra: è mancata la programmazione, è mancata la definizione dei target e degli obiettivi e sono mancati gli strumenti informatici per la raccolta e analisi dei dati e per il monitoraggio dei risultati raggiunti. Piuttosto, abbiamo registrato lamentele da parte di imprese e cittadini che hanno sperimentato (comprensibili) ritardi nella loro interlocuzione con le amministrazioni pubbliche a causa della mancanza di personale sul posto di lavoro. Dunque, nessuno è in condizioni di dipingere un quadro attendibile dall’esperienza che abbiamo vissuto

Veniamo alla quarta tesi propugnata dai difensori del lavoro da casa: il paragone con il settore privato, e in particolare con quello dell’high tech. Del tutto fuorviante. Paragonare un ministero o, ancora peggio, un comune, a Google o Apple oppure alle imprese del settore bancario e assicurativo, è sbagliato. Innanzitutto perché i servizi offerti differiscono radicalmente. In secondo luogo, perché le pubbliche amministrazioni non rispondono alle logiche di mercato, centrate sullo scopo di lucro, ma alla logica dell’universalità dei servizi. Le aziende private possono anche eliminare il front office o l’interazione fisica con il cliente. Se lo facesse la Pubblica amministrazione, invece, priverebbe dell’accesso ai servizi ampie fasce della popolazione. C’è, inoltre, un ulteriore motivo per cui il confronto è improprio: molte delle aziende citate ricorrevano allo smart working, con regole e obiettivi prefissati, già ben prima della pandemia. Con il Covid hanno soltanto esteso questa modalità di lavoro, già strutturata, che adesso per la gran parte stanno abbandonando: segnaliamo come le principali banche e società di consulenza stanno richiamando in ufficio la maggioranza dei loro dipendenti, consentendo in modalità da remoto una parte minoritaria del tempo di lavoro, perché si è preso atto che lo sviluppo della cultura organizzativa e la crescita personale non possono prescindere dall’interazione fisica delle persone.  Per citare un esempio concreto tra le maggiori aziende digitali, Google ha dichiarato che da questo mese i dipendenti torneranno in presenza – fatta eccezione per 14 giorni l’anno – per stimolare una nuova qualità dei servizi, ma anche per migliorare la serenità del personale. 

 

Immeritata e fuori luogo, infine – e passiamo al quinto punto – l’accusa di neoluddismo e di ritorno al passato. Grazie alla spinta del Piano nazionale di ripresa e resilienza, ma non solo, il governo sta attuando una delle più grandi rivoluzioni che il paese abbia mai conosciuto. Per restare soltanto alla Pa, abbiamo sbloccato e digitalizzato i concorsi, semplificato le procedure ed eliminato i colli di bottiglia che potrebbero frenare le transizioni digitale ed ecologica, introdotto modalità di selezione del personale rapide e moderne, in linea con gli standard europei, creato un Portale nazionale del reclutamento che già da ottobre consentirà a chiunque vorrà lavorare con la Pa di candidarsi con un clic. L’infrastruttura necessaria per i progetti di trasformazione digitale, come il cloud e la condivisione dei dati, sta procedendo con forza e con l’appoggio di tutto il governo. In pochi mesi, abbiamo costruito l’impalcatura pubblica per sostenere la ripresa economica, che viaggia a ritmi che non vedevamo dagli anni Sessanta. Ma questo cantiere ha bisogno di tutto il capitale umano disponibile, quello attuale – prezioso conoscitore della macchina amministrativa e quello nuovo. Le decine di migliaia di persone – giovani laureati e professionisti con maggiore esperienza – che saranno assunte nelle pubbliche amministrazioni per il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) non potranno certo inserirsi efficacemente nel contesto lavorativo se metà dei loro colleghi sarà ancora in smart working, a casa. Come potrebbe avvenire l’indispensabile attività di training? Come alimentare lo spirito di squadra e la necessaria osmosi di competenze? Noi vogliamo arrivare in breve tempo alla possibilità di un vero smart working nella Pa, ma per farlo dobbiamo prima tornare alla normalità post-emergenziale.

“Normalità” non è una brutta parola: il Covid-19 dovrebbe avercelo insegnato. Le riforme che stiamo attuando servono proprio a proiettarci verso una nuova “normalità”, dalla quale ripartire. Ma per entrarci dobbiamo necessariamente abbandonare modelli regressivi e improvvisati e lavorare con il motore a pieni giri a costruirne di nuovi. Lo smart working emergenziale è stato un passaggio utile ad aumentare la consapevolezza sui vantaggi del lavoro da remoto e ad accelerare l’alfabetizzazione digitale dei dipendenti pubblici. Ma adesso, per accompagnare la ripresa del paese e assicurare a cittadini, imprese e famiglie servizi adeguati, bisogna tornare in presenza, anche per smaltire velocemente le montagne di arretrati che la pandemia ha contribuito ad aumentare. Davanti al rallentamento dei servizi e alle code agli sportelli, l’Italia che lavora e che produce non capisce affatto il dibattito sullo smart working alimentato dai guru della sociologia del lavoro e dell’innovazione tecnologica. Né lo comprende – e, anzi, lo considera un privilegio – quella parte significativa del pubblico impiego che non ha mai potuto usufruire del lavoro da casa: medici, infermieri, forze dell’ordine e in tempi più recenti il mondo della scuola, tutta la prima linea nella resistenza alla pandemia. 


L’esperienza non sarà cancellata, al contrario: sarà una lezione. Grazie alle riforme messe in campo dal governo, possiamo risolvere tutti i nodi emersi, definire le regole contrattuali e dotare la Pa dell’infrastruttura digitale adatta e sicura. Non sarà un percorso rapido, né semplice, ma dobbiamo procedere in questa direzione. Con una efficace azione riformatrice, il coinvolgimento delle parti sociali e di tutta la Pubblica amministrazione possiamo realizzare uno smart working che sia realmente un ulteriore strumento a disposizione per migliorare l’efficienza delle pubbliche amministrazioni. Lo smart working, però, quello vero: dalla parte dei cittadini e dalla parte delle imprese.

 

Renato Brunetta è ministro per la pubblica amministrazione