Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella (Ansa)

Un dialogo sul Quirinale

Tutti i poteri del presidente della Repubblica

Sabino Cassese

Maestro di cerimonie o magistrato di persuasione? “Re travicello” o ruolo forte? A semestre bianco iniziato, confronto tra un presidenzialista e un parlamentarista sulla massima carica dello Stato

È iniziato il semestre bianco. L’articolo 88 della Costituzione dispone che il presidente della Repubblica può sciogliere le Camere, sentiti i loro presidenti. Non può, però, esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato. Ora tutti temono che il semestre bianco diventi un rodeo, che prevalga il “liberi tutti”, che dominino i picconatori, perché si pensa che il timore dello scioglimento tenga buone le forze politiche. Nello stesso tempo, sono cominciate le manovre in vista dell’elezione, nel febbraio 2022, del nuovo presidente della Repubblica e i bilanci dei diversi settennati, distinguendo presidenti interventisti e presidenti non interventisti. La presidenza della Repubblica ha anche raccolto i discorsi del presidente in carica su nove dei suoi predecessori e due studiosi dell’Università di Pisa, Giacomo Delledonne e Luca Gori, hanno dedicato a questa raccolta uno studio pubblicato nel secondo numero del 2021 della rivista “Quaderni costituzionali”. Dunque, è bene sentire le due campane che da tanto tempo si contrappongono, quella dei presidenzialisti e quella dei parlamentaristi.

 

Presidenzialista. Vittorio Emanuele Orlando, il fondatore della scuola italiana di diritto pubblico, all’Assemblea costituente osservò che il presidente della Repubblica era configurato dalla Costituzione come un “re travicello”. Sempre all’Assemblea costituente fu notato che la facoltà di sciogliere il Parlamento era un “potere minaccioso”. Con il semestre bianco un presidente debole diventa ancora più debole.
Parlamentarista. Semestre bianco non vuol dire che il presidente perda tutti suoi poteri. Rimangono in vita tutti gli altri poteri che gli sono conferiti dalla Costituzione. 

 

Presidenzialista. Convengo che il “potere minaccioso” sia particolarmente forte, tanto che i padri costituenti volevano limitarlo e Orlando notò che era in contrasto con la figura debole del presidente della Repubblica. Quando si valutano i poteri, bisogna, però, anche tener conto della generale irresponsabilità politica del presidente – salvo l’alto tradimento e l’attentato alla Costituzione – e considerare il modo in cui sono stati esercitati. Sei presidenti non hanno mai esercitato il potere di scioglimento.  L’hanno esercitato Leone, Pertini, Cossiga, Scalfaro, Napolitano. È poi importante vedere a quanta distanza di tempo dalla scadenza naturale delle Camere è stato esercitato, perché più lontano è dalla scadenza naturale, più pesante diventa l’esercizio del potere. Infatti, mi chiedo se sia possibile che un presidente neo-eletto, nel febbraio del 2022, sciolga il Parlamento che l’ha appena eletto, anche in considerazione del fatto che vi sarebbero masse di parlamentari sicuri di non poter ritornare a Montecitorio e a Palazzo Madama, a causa della riduzione del numero dei parlamentari (da quasi 1.000 a 600) e del numero dei loro potenziali elettori.
Parlamentarista. Bisogna uscire dal dilemma “re travicello” - capo dello Stato forte. I costituenti avevano una duplice esperienza: un re troppo debole e un capo del governo (Mussolini) troppo forte. Dettero al presidente della Repubblica compiti che interferiscono con l’esercizio di tutt’e tre i poteri dello Stato, quello legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario. In tutti questi, il presidente può operare come magistrato di persuasione e di influenza, ma anche condizionandone l’esercizio. Nonostante il minuzioso elenco di compiti del capo dello Stato, la Costituzione gli lascia anche la mano libera. Vi sono poi poteri che si sono ingigantiti per strada, hanno preso un particolare sviluppo nella storia repubblicana, in particolare quello di regista delle crisi. Le crisi sono state numerose e, quindi, il regista si è dovuto far sentire molto spesso.

 

Presidenzialista. La Costituzione contiene anche altre ambivalenze. Ad esempio, all’articolo 87 definisce il presidente “Capo dello Stato”. La parola “capo”, usata in particolare nell’ordinamento militare, non è mai usata dalla Costituzione, perché ricorda la definizione data dalla legge Rocco, negli anni 20 del secolo scorso, alla posizione occupata da Mussolini. I membri dell’Assemblea costituente furono restii nell’usare alcune parole. Solo in pochi casi utilizzarono la parola “nazione” e solo per il presidente della Repubblica la parola “capo”.  Anche l’altra espressione “rappresenta l’unità nazionale” è ambivalente, tanto che vi sono stati presidenti che hanno “esternato” molto (ad esempio, Pertini) e presidenti, come Einaudi, che hanno “esternato” pochissimo; presidenti molto attivi in politica estera, come Gronchi, e presidenti tanto poco attivi in politica estera da non essere mai andati all’estero (salvo il Vaticano), come Einaudi.
Parlamentarista. La Costituzione conferisce al presidente della Repubblica poteri limitati ma molto importanti; oltre ai poteri di formazione del governo (nomina del presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri) e in materia di difesa, l’articolo 87 contiene un elenco minuzioso e lungo di compiti. Meuccio Ruini, il presidente della commissione dei 75 che preparò il testo della Costituzione, nel presentarlo all’Assemblea costituente in seduta plenaria, disse: “non è l’evanescente personaggio, il motivo di pura decorazione, il maestro di cerimonie che si volle vedere in altre Costituzioni”. Osservò che il presidente costituisce “la forza permanente dello Stato, al di sopra delle fuggevoli maggioranze”. Lo definì “il grande consigliere, il magistrato di persuasione e di influenza, il coordinatore di attività, il capo spirituale della Repubblica”, con la missione di “equilibrio e di coordinamento” e di “custode della Costituzione”.

 

Presidenzialista. Dall’altro lato, un autorevole componente dell’assemblea come Orlando lamentò che contasse meno di un “re travicello”. L’unico merito dell’Assemblea fu quello di mantenere saldo il vincolo della durata di sette anni che, come osservò il costituente Egidio Tosato, assicurano continuità di azione e rafforzano l’indipendenza del presidente rispetto alle Camere, rinvigorendone la figura.
Parlamentarista. Un giudizio non può essere dato senza tener conto di come sono stati scelti i presidenti. Cinque erano stati presidenti della Camera, uno era stato presidente del Senato, due presidenti del Consiglio dei ministri, uno presidente dell’Assemblea costituente. Il primo e l’ultimo presidente avevano ricoperto la carica di vicepresidente del Consiglio dei ministri. Questi ruoli erano stati svolti anche in tempi molto precedenti all’elezione. Ciò vuol dire che i presidenti sono stati scelti in prevalenza fuori dello stretto rapporto partiti-governo, privilegiando il circuito parlamentare, piuttosto che quello governativo e dando prevalenza a chi era “del mondo esperto/ e de li vizi umani e del valore” (di qui anche il requisito dei cinquanta anni per essere eletto). 

 

Presidenzialista. Colpisce il fatto che nel lungo cinquantennio dominato dal partito della Democrazia cristiana ben tre presidenti siano stati scelti fuori di quel partito (Einaudi, Saragat e Pertini) e che anche i presidenti scelti dell’ambito della Democrazia cristiana fossero periferici all’interno del partito: così Gronchi, Leone e Cossiga. L’unica eccezione fu quella di Segni, che è stato infatti il presidente più onnipresente nell’attività governativa. Questa osservazione può essere ripetuta per il venticinquennio successivo, perché Scalfaro era più un notabile che un leader democristiano, Ciampi era estraneo al mondo dei partiti, Napolitano fu chiamato quando il ciclo della sua partecipazione attiva alla vita politica era terminato, Mattarella fu eletto dopo le due parentesi del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa e della Corte costituzionale. Questo vuol dire che si sono preferiti presidenti imparziali, non direttamente impegnati nella vita partitico-governativa, ma anche che si è preferito non avere grandi leader politici al vertice dello Stato.
Parlamentarista. Questo è segno di una superiore saggezza della classe politica, consapevole di un pericolo: stabilire un “continuum” maggioranza popolare-maggioranza parlamentare-governo-presidente della Repubblica avrebbe concentrato troppi poteri nelle mani di quest’ultimo. Inoltre, non si può dire che ogni presidente è un caso a sé, come negli Stati Uniti, dove domina una democrazia fondata sull’alternanza e quindi è difficile individuare le linee che legano i diversi presidenti. I presidenti italiani riflettono una continuità nell’ambito della quale vanno valutati. C’è il periodo iniziale, di fondazione (De Nicola e Einaudi), poi le presidenze Gronchi, Segni e Saragat che servono a preparare e consolidare il centro sinistra; poi le presidenze Leone, Pertini e Cossiga, che accompagnano la crisi della “democrazia fuori del comune” (la definizione è di T. J. Pempel) italiana; successivamente, le presidenze Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Mattarella che hanno garantito lo svolgimento della vita politica dopo la crisi dei partiti che avevano invece retto il sistema politico nel periodo precedente. Nel primo cinquantennio, dal 1946 al 1994, la presenza ininterrotta del partito della Democrazia cristiana al governo ha garantito la continuità. Una supplenza è stata svolta nell’ultimo trentennio, dal 1994 al 2021, dal presidente della Repubblica.

 

Presidenzialista. Questi presidenti hanno arginato l’andamento della politica, non l’hanno guidata.
Parlamentarista. Non si può negare, tuttavia, che i tredici capi dello Stato (includo anche il primo, che lo fu per due settimane e il secondo, che divenne presidente dopo esser stato il capo provvisorio dello Stato) siano stati scelti in modo da rappresentare il paese. I primi tre, De Gasperi, De Nicola ed Einaudi, erano uomini nati nell’Ottocento, provenivano da Trento, Napoli e Torino, erano un giornalista, un avvocato e un professore universitario. Seguirono Gronchi, Segni e Saragat, anch’essi uomini dell’Ottocento, provenienti da Pontedera, Sassari e Torino, un professore di liceo, un professore universitario e un contabile di banca. Il primo presidente nato nel nuovo secolo fu Leone, nato a Napoli, professore universitario, seguito dal più anziano Pertini, nato in provincia di Savona e avvocato. Seguì Cossiga, sassarese, che aveva iniziato una carriera universitaria, poi Scalfaro, di Novara, magistrato; Ciampi di Livorno, banchiere centrale; Napolitano, di Napoli, forse l’unico presidente che può essere chiamato un “politico puro”; infine Mattarella, nato a Palermo, ma vissuto a Roma, professore universitario.

 

Presidenzialista. Il ruolo del presidente della Repubblica non è stato soltanto debole; è stato anche esercitato debolmente. Saragat non ha mai chiesto nuove deliberazioni di proposte legislative al Parlamento, mentre Cossiga ha esercitato questo potere 22 volte. Cinque presidenti non hanno mai indirizzato messaggi alle Camere, cinque ne hanno inviato uno, Cossiga sei. Con l’eccezione di Segni, i presidenti hanno molto poco presieduto il Consiglio superiore della magistratura. Il “plenum” del Consiglio si riunisce in almeno una trentina di giorni per anno, e il numero delle sedute è più alto. La presidenza effettiva dei presidenti della Repubblica, nel corso dei loro mandati, è stata la seguente: 20 sedute Gronchi, 38 Segni, 28 Saragat, 21 Leone, 31 Pertini, 20 Cossiga, 18 Scalfaro, 11 Ciampi, 17 Napolitano, 16 Mattarella (bisogna tener conto che Segni è stato in carica solo poco più di un biennio e Napolitano per quasi nove anni).
Parlamentarista. I presidenti sono sempre stati indaffarati per lo svolgimento di un’altra funzione, quella di gestori delle crisi di governo. Nei 75 anni di storia repubblicana abbiamo avuto 67 governi e quindi i presidenti si sono dovuti impegnare quasi una volta all’anno nel dare un governo al paese. Einaudi e Gronchi hanno dovuto gestire sette crisi di governo a testa. Segni ne ha gestite tre, Saragat sei, Leone otto e due scioglimenti delle Camere, Pertini otto crisi di governo e due scioglimenti delle Camere, Cossiga sei crisi di governo e uno scioglimento delle Camere, Scalfaro sei crisi di governo e due scioglimenti delle Camere, Ciampi quattro crisi di governo, Napolitano cinque crisi di governo e due scioglimenti delle Camere, Mattarella tre crisi di governo. E’ importante sottolineare il fatto che i presidenti sono stati gelosi dei propri poteri. Einaudi, in una nota del 1954, scrisse che voleva “evitare che si pongano precedenti grazie ai quali accada o sembri accadere che egli [il presidente] non trasmetta al suo successore immuni da ogni incrinatura, le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”. Un concetto analogo lo espresse in una lettera indirizzata al Guardasigilli, perché la facesse leggere a De Gasperi, allora presidente del Consiglio dei ministri, quando si trattò di nominare per la prima volta i giudici della Corte costituzionale. Osservazioni analoghe si potrebbero fare per il duro conflitto che vide contrapposti Gronchi e il governo in materia di politica estera.

 

Presidenzialista. I presidenti successivi però non furono altrettanto gelosi dei propri poteri, come dimostrato dallo scarso uso del potere di controllo delle leggi mediante richiesta di riesame.
Parlamentarista. Mi pare importante, però, anche capire che cosa volevano gli autori della Costituzione. Essi esclusero la forma presidenziale ed esaminarono attentamente quella direttoriale (dal direttorio francese del 1795 alla Svizzera, fino all’ordinamento dell’Unione sovietica), dove il capo dello Stato era costituito da una pluralità di persone fisiche. Essi erano consapevoli della esclusione, che volevano operare, di un’eccessiva concentrazione al vertice dello Stato, sia nelle mani di una persona sola, sia nelle mani di più persone.

 

Presidenzialista. Oggi le ragioni del presidenzialismo sono molte e  importanti. La prima è che avere una persona al vertice, dotata di tutti i  poteri indispensabili, è necessario da quando la rete dei poteri internazionali e multinazionali è diventata così fitta. I “condòmini” richiedono che il paese parli con una voce sola, che assicuri continuità dell’azione statale nelle relazioni sia internazionali, sia multinazionali. Basta leggere i libri di ricordi di Andreotti per rendersi conto di quanto la sua figura sia stata importante nelle relazioni internazionali, perché, al di là delle posizioni da lui ricoperte, era visto come interlocutore stabile. In secondo luogo, il presidenzialismo è oggi elemento importante per compensare la eccessiva frammentazione delle forze politiche, dalla quale si esce soltanto con scelte popolari che indichino un indirizzo, costringendo l’elettorato a fare almeno una scelta di fondo, per il vertice dello Stato. Ritornano d’attualità le parole usate da Marx ne Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte: “L’assemblea nazionale eletta sta alla nazione in un rapporto metafisico, mentre il presidente eletto [ha con essa] un rapporto personale. L’assemblea nazionale presenta nei suoi singoli rappresentanti i molteplici lati dello spirito nazionale, ma nel presidente [questo spirito] si incarna”. Al di là delle espressioni di impianto bonapartista, questa frase di Marx sembra particolarmente efficace per  l’attuale situazione.
Parlamentarista. Vi sono però altrettanti argomenti contro un sistema presidenziale. Innanzitutto, a differenza di altri Paesi con una forte tradizione bonapartista, come la Francia, l’Italia non ha nessuna esperienza di questo tipo ed anzi ha una “anti-tradizione” di questo tipo nel mussolinismo. In secondo luogo, è utile che il presidente venga scelto dalle assemblee parlamentari, che possono passare al vaglio le diverse candidature e scegliere una persona che non sia un incompetente, come invece accade oggi con il presidente brasiliano o come accaduto in passato con Napoleone III (ricordo il geniale ritratto che ne ha fatto nelle sue memorie Tocqueville).

 

Presidenzialista. Si potrebbe almeno tentare un’“applicazione presidenzialista”  della vigente Costituzione, come suggeriva Mario Bracci (definito da Pietro Nenni “l’ape maestra della Corte costituzionale”), scrivendo nel 1958 a Giovanni Gronchi perché si muovesse “verso quel tipo originale di Repubblica presidenziale che è reso possibile dalla lettera e dello spirito della Costituzione”. Bracci morì l’anno dopo aver scritto queste parole. Inoltre, esistono ormai molte specie di presidenzialismi, ivi compresa la forma semipresidenziale francese, e quindi non necessariamente bisogna scegliere un presidente-dittatore.
Parlamentarista. Non bisogna, però, sottovalutare i vantaggi della scelta costituzionale, che consente ai presidenti di adeguarsi alle circostanze e a bisogni del momento. I poteri del presidente – è stato molte volte ripetuto – somigliano a una fisarmonica. Quella che sembra una debolezza è una forza. Una figura non completamente delineata consente alle singole persone di rispondere alle circostanze storiche. Basta pensare alla proposta della sfiducia costruttiva: se venisse introdotta in Italia (dove era stata proposta ancor prima che venisse introdotta in Germania), il presidente italiano diverrebbe molto simile a quello tedesco. Infatti, la sfiducia costruttiva impone al Parlamento di darsi carico della gestione della crisi e quindi toglie dalle mani del presidente nella Repubblica il compito più importante, quello di gestore delle crisi. Due cancellieri tedeschi hanno rifiutato, una volta cessato il loro mandato, di essere eletti al vertice dello Stato, ritenendola quasi una diminuzione.

 

Presidenzialista. Potrei essere d’accordo, se vi fossero altri “organi di correzione” nella Costituzione italiana. E’ sotto gli occhi di tutti che il tessuto dello Stato si sta indebolendo. I giudici stanno pagando il costo dei troppi vizi del corpo della magistratura. La pubblica amministrazione sta pagando il costo di troppe persone nominate senza concorso e quindi reclutate senza una reale selezione. Il corpo politico è sovrano ma incompetente, e può essere paragonato al nocchiero di una nave che non conosce né la navigazione, né i venti, né la rotta. C’è un generale sbandamento. La politica non fa programmi, non indica un futuro, ma nello stesso tempo esonda, affidando alla legislazione il compito di amministrare. L’esecutivo e il giudiziario sono sempre in affanno, in ritardo rispetto ai compiti da svolgere, ma nello stesso tempo debordano, sia sotto la pressione di istanze corporative, sia per ambizioni di potere. Il paese è disorientato, come una classe di allievi volenterosi, ma senza un maestro. In questa situazione, c’è bisogno di “organismi di correzione”, che la Costituzione non prevede.
Parlamentarista. L’esito negativo delle molteplici proposte di quello che di recente Roberto Chiarini (Storia dell’antipolitica dall’Unità ad oggi. Perché gli italiani considerano i politici una casta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2021) ha chiamato “gollismo all’italiana”, fondato sulle critiche dei mali del parlamentarismo (lunghezza delle decisioni, mediocrità del personale politico, crisi ripetute, inefficienza dell’esecutivo) dimostra la non percorribilità della strada presidenzialistica.