il retroscena

Così la guerra di Salvini alla Lamorgese mette nei guai i leghisti di governo

Valerio Valentini

Il capo del Carroccio tenta di inseguire la Meloni, ma il "suo" Molteni (che lamenta di essere messo ai margini) resta sulla faglia del Viminale. L'asse tra la ministra dell'Interno e Draghi chiude ogni spazio di manovra. Intanto la Lega presenta 900 emendamenti al dl Covid, e da Chigi chiamano Giorgetti

Salvate il soldato Molteni. Per paradossale che appaia, tra i più imbarazzati per l’intemerata di Matteo Salvini contro Luciana Lamorgese c’è proprio lui, quel Nicola Molteni che del Capitano è soldato fedele, e che però a ritrovarsi così, stretto tra l’incudine della propaganda social della Bestia e il martello dei doveri ministeriali che lo investono, a questa zuffa agostana intorno al Viminale assiste con lo sgomento di chi se la sarebbe volentieri risparmiata. E questo disorientamento sta un po’ lì a riassumere l’umore dei leghisti di governo. Lo sa bene lo stesso Giancarlo Giorgetti, che del resto ormai c’ha fatto l’abitudine e recita la parte della commedia gli assegna, quella del tutore che garantisce per il ragazzaccio indisciplinato che pure gli è capo. E così quando ieri a Palazzo Chigi, dove già sono impantanati nella stesura del nuovo decreto contro il  Covid, si sono accorti che la Lega aveva appena depositato 900 emendamenti al decreto Covid precedente, quello che istituisce il green pass, è al citofono del Mise che hanno suonato.

 

E’ successo lo stesso, del resto, anche sulla questione migratoria. Perché, se è vero che nel merito Giorgetti condivide eccome la linea oltranzista di Salvini sul blocco degli sbarchi, è altrettanto evidente che la logica di questa attacco sgraziato dell’ex ministro dell’Interno a chi ha preso il suo posto si spiega solo  alla luce dell’ansia elettorale, della perenne rincorsa affannata del leader del Carroccio alla odiatissima amica Giorgia Meloni. E così Molteni, che già fu braccio operativo del Salvini di governo, quando il Truce scorrazzava in giro per l’Italia tra comizi e bagni di folla e su di lui ricadevano le responsabilità di far girare la macchina del Viminale, e che anche in virtù di questi suoi meriti è stato di nuovo mandato a presidiare l’operato della Lamorgese, ora fatica a trattenere certi sbuffi. Lo fa con Giorgetti, certo, e con altri volti del leghismo di governo, come l’ex presidente del Copasir Raffaele Volpi. Non perché, beninteso, non rimpianga pure lui i tempi felici dei decreti “Sicurezza”. Il problema, semmai, è nei rapporti con un ministro, la Lamorgese, che già così lo tiene assai in disparte, gestendo con scrupoloso controllo non solo la delega all’immigrazione, che inutilmente Salvini chiede e chiederà proprio per il suo Molteni, ma anche molte delle faccende che afferiscono invece con le competenze specifiche assegnate al sottosegretario leghista, e cioè quelle della Pubblica sicurezza.

 

Del resto, che il doppio gioco di chi sta al governo ma anche no fosse difficile da sostenere, stando al Viminale, Molteni se n’era accorto già a metà marzo scorso, quando rilasciò dichiarazioni di contrarietà alla chiusura di alcuni presidi di polizia in Romagna disposta già da tempo, e fu richiamato all’ordine dagli uffici della ministra. E così tre sere fa, partecipando alla festa del partito a Milano Marittima, Molteni ha mostrato il volto duro di chi denuncia il fatto che “forse chi ha il dovere di fermare gli sbarchi non sta adottando la stessa determinazione che adottò Salvini quando stava al Viminale”, e poi però, richiesto di definire meglio la portata delle sue accuse, si ritrovava a camminare un po’ sulle uova, ad attaccare “gli organismi internazionali che dovrebbe controllare quello che è un fenomeno globale”, e tirando dunque in ballo “l’Europa, le Nazioni Unite e anche la Nato” (ad abundantiam), e poi dicendo di riconoscersi comunque pienamente nell’impegno che, a proposito della modifica delle regole comunitarie sull’immigrazione, sta dimostrando Mario Draghi.

 

E qui sta il non sequitur della battaglia di Salvini, però. Perché dichiarare incondizionata fiducia al premier cercando tuttavia di attaccare una ministra che a Palazzo Chigi viene stimata come poche altre, non fosse altro che per la protezione di cui gode dalle parti del Quirinale, è un po’ una corsa lungo un crinale scivoloso che, al massimo, conduce in un vicolo cieco. E qui si spiega l’insofferenza che anche alla Farnesina mostrano di fronte agli strambi paragoni di Salvini, che compara i suoi 3.600 sbarchi del 2019 coi 30.000 del 2021, come se ogni anno fosse uguale al precedente, come se nel frattempo non fosse scoppiata una pandemia che spinge decine di migliaia di africani a riversarsi sulle rotte verso l’Europa, come se nel frattempo non fosse anche deflagrata una crisi politica in quella Tunisia che un tempo era il più affidabile dei dirimpettai, sul controllo delle partenze, e da cui invece provengono almeno 8.000 dei 30.000 immigrati arrivati in questi ultimi mesi. Salvini ovviamente nicchia, sul punto. Ai suoi parlamentari spiega anzi che “se il M5s non ha esitato a fare cinema sulla giustizia, non vedo perché noi non dovremmo chiedere un riconoscimento politico sul tema che a noi sta più a cuore”.  Solo che lì, sulla faglia tra la Lega di lotta e quella di governo, il soldato Molteni scruta con sguardo torvo l’orizzonte.

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.