MAURO SCROBOGNA LAPRESSE

I No Global hanno perso

Loris Zanatta

Genova, vent’anni fa, annunciò la risacca sovranista, l’ondata protezionista, il revival nazionalista e il boom nativista in cui siamo sommersi. Quel pensiero esiste ancora, ma la storia gli ha dato torto

Genova 2001, avevano ragione i “no-global”: così spiegano programmi tivù e tam tam sui social, hashtag su twitter e professionisti dei talk show. Ai posteri l’ardua sentenza, recitava il Manzoni. Vent’anni dopo, eccola qui: i villani di allora sono gli eroi di oggi; e viceversa. Per espiare la colpa, gli schermi ci restituiscono volti e voci dei visionari dimenticati, dei profeti incompresi. Il messaggio è: quando rivedremo una città in fiamme durante un vertice internazionale, bando all’istintiva ripulsa! Loro vedono cose che noi ancora non vediamo, i loro nobili fini giustificano i mezzi opinabili. Va da sé che le atrocità repressive, indegne d’uno Stato di diritto, ci hanno messo molto del loro.

 

A remare contro la corrente si fa una gran fatica e se va bene si prendono contumelie, ma qualche domanda andrà posta. Avevano davvero ragione? Su cosa? E’ questo il modo corretto di porre la questione? Comincerei da questo, dal metodo. Spiace contraddire Francesco De Gregori, ma non è vero che “la storia dà torto e dà ragione”. Sarebbe bello, sarebbe comodo, un po’ come trovare le risposte corrette all’ultima pagina della ”settimana enigmistica”, ma non è sempre così che funziona.  E poi perché, in un caso come questo, la “ragione” si dovrebbe assegnare a vent’anni di distanza? Perché non a dieci o quaranta? Che ne penseranno tra un secolo? Non c’è un giudice della storia, un’unità di misura per calcolarne torti e ragioni. Ci tocca convivere con le nostre incertezze e i nostri dissensi. Citazione per citazione, la storia è un immenso mare “che si muove anche di notte, non sta fermo mai”, scompiglia domani quel che oggi credevamo assodato, è un quadro astratto che ognuno interpreta a suo modo. Per fortuna.

 

Tutto ciò è ovvio, perfino banale, ma il modo in cui si discute di un evento storico non è questione di lana caprina. Si potrebbe anzi dire che preordina l’esito della discussione. Mettere il carro davanti i buoi, scambiare cause ed effetti, spiegare il “prima” con il “dopo” è una tentazione irresistibile: si chiama “filosofia della storia” e non importa scomodare Karl Popper o Raymond Aron per spiegarla. E’ l’idea che un piano divino guidi le nostre vite, secondo l’escatologia degli antichi, che le determinino le leggi scientifiche della storia, secondo l’escatologia dei moderni. L’approdo, frutto di catarsi spirituale o violenza rivoluzionaria, è in entrambi casi la terra promessa, l’armonia primigenia, la società senza classi, la fratellanza universale, il Regno di Dio in terra. Ogni utopia redentiva e rivoluzionaria proietta verso il futuro la nostalgia di un passato mitico in cui l’uomo era senza peccato e il “buon selvaggio” non conosceva l’ingiustizia. E’, in senso stretto, un’utopia reazionaria, una fuga dalla storia com’è verso la storia come dovrebbe essere, una nostalgia di assoluto e un’esigenza di certezze. Che battaglia impari! Chi invoca l’apocalisse avrà sempre ragione e chi armeggia con la mondanità sempre torto, non c’è mondo reale in grado di superare l’esame del mondo ideale. Questo, mi pare, è il criterio con cui s’assegnano oggi torti e ragioni di vent’anni fa, si stabilisce chi stava dal lato “giusto” e chi dal lato “sbagliato” della storia. Inutile stupirsi che tali giudizi attecchiscano tanto tra noi: profetismo cristiano e profetismo comunista sono i gemelli diversi che impregnano il nostro immaginario, il secondo è l’erede secolare del primo.

 

Cosa c’entra tutto ciò con Genova e il movimento “no-global”? C’entra eccome, perché spiega la difficoltà di fare un bilancio razionale ed equilibrato del suo percorso e della sua eredità. Potremmo passare ore ad elencare dati e circostanze che ne smontano pezzo a pezzo la narrazione, a dimostrare che l’evoluzione del mondo reale è lontana anni luce da quella della loro denuncia virtuale. Sarebbe come pestare acqua nel mortaio. A un Steven Pinker che dimostra dati alla mano che il mondo della globalizzazione è più sicuro e pacifico, benestante e in salute di qualsiasi altro del passato, i “no-global” preferiscono  il catastrofismo provvidenzialista di Michael Hardt e Toni Negri. Al buon senso di Angus Deaton, alla sua asciutta analisi degli straordinari progressi compiuti nella fuga dalla povertà e dalla malattia da quando le ondate di globalizzazione iniziarono a susseguirsi, il radicalismo piacione di Joseph Stiglitz. Sarà inutile far notare che lungi dal sancire il dominio del Nord “imperialista” sul Sud “postcoloniale”, la globalizzazione ha ridistribuito le carte a favore del secondo e ai danni del primo; e che gli effetti si sentono eccome sulla governance mondiale. Ancor più inutile osservare che lo Stato-nazione dato per morto è più vivo che mai; che la teoria complottista del Grande Fratello che muove i fili del mondo, del contubernio tra multinazionali e grande finanza, burattinai vari e faccendieri coi denti d’oro, cuore della narrazione “no-global”, è vecchia come il mondo stesso, dalle streghe ai Saggi di Sion. Chi ricorda oggi le bizzarre teorie di Daniel Estulin sul “governo mondiale”, di cui s’infatuò Fidel Castro? Chi le crociate di Juan Domingo Perón contro la “sinarchia internazionale”? Guai ad alludere agli “ordini spontanei” della scuola austriaca o anche solo al “vuoto di governo mondiale” su cui insiste Moisés Naim: complessità e imprevedibilità sono indigeribili per chi pretende l’Assoluto ed ha perciò bisogno del nemico da combattere, del male da estirpare, di “monsieur le Capital”, un kulako di passaggio, un “servo dell’imperialismo”.

 

Ma la cosa più inutile sarà aspettarsi un onesto confronto tra aspettative e risultati, profezie ed esiti, semina e raccolti. L’immaginario escatologico non ha orizzonti temporali, né passati di cui rendere conto. Fucina di religioni secolari, il suo regno non è di questo mondo, impossibile metterlo alle strette. Il bicchiere mezzo pieno gli parrà sempre mezzo vuoto, i progressi di alcuni causa delle disgrazie altrui; dalla bomba demografica al cambio climatico, dal pericolo nucleare all’ingiustizia sociale, tutto suonerà a sirena dell’apocalissi che reclama redenzione: o ci si “salva” tutti insieme o meglio non salvarsi affatto. Come? Proposte concrete, sostenibili, razionali? Dov’ è “la politica”, la buona vecchia politica? Figuriamoci. Ricordo studenti festeggiare la laurea inneggiando a Hugo Chávez, economisti di gran prestigio celebrarne le “sagge” politiche economiche e con le sue quelle dei coniugi Kirchner e degli altri membri della “alternativa bolivariana”, sociologi di grido intonare peana ai “bilanci partecipati” come trincea dell’hombre nuevo, filosofi in viaggio premio discettare sulla “democrazia partecipativa”. Cosa ne rimane? Com’è andata a finire? A quanto ammontano i costi umani? Silenzio. Eppure sarebbero bastati un po’ di cautela ed umiltà, di conoscenza del contesto storico e culturale, religioso e istituzionale per prevedere il disastro, per scorgere dietro i lustrini l’antico spettro autoritario e clientelare, paternalista e megalomane, la corsa a testa bassa verso il baratro. Inutile, una volta ancora: come un’ape di fiore in fiore, la torcia della liberazione si spegne a Caracas ma brillerà presto altrove. La valigia è già pronta.

 

I movimenti messianici esistono per contestare, non per governare: come la febbre, segnalano l’infezione ed entro tali limiti sono utili e necessari, stimolano le riforme. Se però rompono gli argini, se ne trionfa lo spirito millenarista, abbatteranno edifici che costò secoli alzare. I “no-global” non fanno eccezione. Generazione dopo generazione, è come se ognuna dovesse riscoprire la ruota, bruciarsi col fuoco dell’imperfezione del mondo, con la caducità della storia, sognare un radioso futuro senza sospettare sia la proiezione di un passato immaginato ma inesistente. In tal senso sono eredi inconsapevoli dei profeti antichi, delle sette ebionite che odiavano il commercio e la proprietà, il denaro e la prosperità, che li additavano a fonti primigenie di corruzione morale e ingiustizia sociale, a cause prime dell’egoismo e dell’individualismo, mali del mondo. A Genova inscenarono la millesima replica del “sermone della montagna”, del potente mito della vendetta del povero contro il ricco, benché nessun “povero” figurasse tra loro. Chi di noi, chi più e chi meno, non ne è stato tentato in gioventù?

 

Non è perciò così strano che il nostro passato sia diventato il loro futuro, che la crociata antiglobalista sia sfociata in rinculo sovranista. E’ già accaduto, accadrà ancora: ad ogni epoca di globalizzazione e secolarizzazione, di liberalizzazione e democratizzazione, ne segue un’altra di restaurazione nazionalista e confessionale, moralista e illiberale. L’indignazione contro gli effetti disgreganti della modernità si traduce in romantiche celebrazioni del popolo, della patria, dell’identità, della cultura; l’universalismo diventa particolarismo, il cosmopolitismo etnocentrismo, il libero scambio autarchia. Così fu durante le due guerre dopo l’ età liberale, così negli anni ’60 e ’70 dopo l’impeto globalista dei “trent’anni gloriosi” del dopoguerra, così oggi dopo la raffica globalizzatrice che accompagnò la fine della guerra fredda.

 

Genova annunciò dunque la risacca sovranista, l’ondata protezionista, il revival nazionalista, il boom nativista in cui siamo sommersi. Ciò che quel movimento metteva all’indice non erano gli aspetti deteriori della globalizzazione, ma la globalizzazione stessa. Dalle sue rovine non poteva nascere alcuna “globalizzazione della solidarietà”, araba fenice mille volte invocata ma mai definita, profilata, progettata: l’ennesimo mito. In cambio è maturato il clima in cui sguazzano i Donald Trump e i Viktor Orbán, gli Andrés Manuel López Obrador e i Beppi Grillo. Qualche guru, vedi Noam Chomsky, lo temeva e lanciava angustiati moniti contro la deriva. Intanto ne celebrava però i totem, chavismo in primis. E una volta scatenata la furia redentiva, una volta innescato l’Esodo del “popolo” verso la “liberazione”, esposta la prosaica realtà allo tsunami escatologico, addio riforme, addio razionalità, addio al saggio metodo di apprendere dagli errori per emendarli. Il dentifricio non rientra nel tubetto, il millenarismo non si adegua al secolo, il messianismo non si accontenta di qualcosa di meno della distruzione del “sistema”. Non sarà un caso che, vent’anni dopo, l’idolo “altermondista” sia un Pontefice, un’autorità religiosa il cui bersaglio prediletto è “il Sistema”, un Moloch senza volto né nome, una piovra occulta che corrompe la “cultura” dei “nostri “popoli” contaminandone l’”identità”, il lessico dei populismi d’ogni luogo ed epoca.

 

Dunque? Cosa aspettarsi dalla beatificazione dei no-global? Poco o nulla. Sbaglierò, ma penso che piaccia o no ad essi e ai loro eredi, gli effetti della pandemia globale si tradurranno, si stanno già traducendo, in una nuova ondata di globalizzazione, in un nuovo e portentoso ciclo di quella che Joseph Schumpeter chiamò “distruzione creativa”. Nuove tecnologie, nuove migrazioni, nuove forme di lavoro, nuove forme di comunicazione ed interazione. Quindi nuove inclusioni ed esclusioni, nuovi progressi e nuovi conflitti. Aspettiamoci altre Genova, mettiamone in conto le “ragioni”, apriamo l’ombrello contro i “torti”.

 

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