Guglielmo Epifani (foto Ansa)

lutto nella sinistra

In memoria di Guglielmo Epifani, voce riflessiva del mondo riformista

Sergio Soave

L'ex segretario della Cgil era un leader propenso all'ascolto e alla mediazione. Alla sinistra mancherà il suo tono civile e il suo carattere accomodante

Guglielmo Epifani era stato segretario generale della Cgil per otto anni, dal 2002 al 2010 e segretario del Pd per pochi mesi nel 2013. Veniva dal sindacato dei poligrafici e dal Psi, fu quindi il primo leader della Cgil (dopo Bruno Buozzi) non iscritto al Pci. Si trovò a gestire il maggiore sindacato italiano in una fase difficile, in cui si contrapponevano spinte alla concertazione e spinte radicali, particolarmente presenti tra i metalmeccanici. Nel 2006 in un’assemblea a Mirafiori i segretari delle confederazioni vennero duramente contestati e il segretario della Fiom, Gianni Rinaldini, lo accusò persino di essersi aumentato lo stipendio senza seguire le norme regolamentari. La sua non è stata una esperienza facile: anche quando passò al Partito democratico si trovò a dover gestire una transizione complessa, quella conseguente alle dimissioni di Pier Luigi Bersani da segretario e che portò alla elezione di Matteo Renzi. Durante il governo Renzi si trovò a dover approvare il Jobs Act, il che gli costò molto, visto che era stato lui a convocare la colossale manifestazione della Cgil a difesa dell’articolo 18 contro il governo di Silvio Berlusconi. Così, alla fine, è uscito dal Pd per entrare nel gruppo di Liberi e uguali.

 

E’ stato un leader propenso all’ascolto e alla mediazione, in un periodo in cui prevalevano le personalità più carismatiche, il che ha danneggiato la sua immagine, che a un esame più sereno verrà rivalutata. Sempre cortese e corretto, alieno da qualsiasi posa gladiatoria, ha cercato sempre di costruire equilibri anche se raramente c’è riuscito.  La sua ispirazione di fondo era un riformismo intransigente, imperniato su una capacità insolita di riconoscere i dati della realtà anche quando erano scomodi. Quando morì Pierre Carniti, Epifani scrisse che “la sfida culturale all’egemonia della Cgil fu costante e raggiunse il suo apice con l’accordo separato sulla scala mobile. La vittoria nel referendum fu sostanzialmente la sua vittoria prima ancora di quella di Craxi”.

Ecco un esempio, tra i tanti, non consueto di lettura non partigiana di una vicenda controversa. Epifani non è stato un “vincente” e non aveva l’ambizione di esserlo: voleva essere utile e lo è stato, sia nel sindacato sia nella politica. Mancherà alla sinistra il suo contributo che anche quando era polemico si alimentava di considerazioni di merito e di rispetto vero per gli interlocutori e gli avversari. Spesso il suo tono civile e il suo carattere accomodante sono stati scambiati per incertezza, mentre in essi risiedeva la sua vera forza, quella di una persona che preferiva convincere piuttosto che vincere. Ora che non c’è più, verrà a mancare una voce diversa dalle altre, una voce che non si faceva ascoltare per l’impeto o l’irruenza ma che spingeva a una riflessione e a un riesame più attento delle questioni. Chi vorrà ricordarlo come gli sarebbe piaciuto dovrebbe leggere i suoi libri, soprattutto quello scritto con Vittorio Foa, “Cent’anni dopo, il sindacato dopo il sindacato”, in cui si pongono consapevolmente i problemi della difficile difesa della dignità del lavoro in un mondo per tanti versi cambiato. 

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