La balla del Draghi liberista

Luciano Capone

Nell’agenda Draghi c’è un ritorno dello stato (Alitalia, Ilva, Aspi, debito) ma gli ex giallorossi vogliono trasformare il premier in quello che non è. Indagine su una conflittualità pericolosa per le riforme (e per la sinistra)

Dopo qualche scaramuccia tra i partiti che sostenevano il governo Conte – ad esempio su nuove proposte di tassazione, sblocco dei licenziamenti e normativa sugli appalti – nell’area politico-culturale nostalgica della stagione giallorossa si sta imponendo un tentativo di marcare una distanza dal governo Draghi. Qualcosa del genere si era già visto, sottotraccia, con le riaperture decise ad aprile dal premier Mario Draghi ritenute da taluni, all’epoca, un rischioso cedimento agli interessi di Confindustria che avrebbe provocato un’impennata di contagi, ospedalizzazioni e decessi (qualche “intellettuale” senza il senso del tragico e del ridicolo l’aveva addirittura definito “il nostro Bolsonaro”). Secondo questa narrazione Palazzo Chigi sarebbe una specie di presidio turboliberista, certificato dalla presenza in ruoli chiave di economisti come Francesco Giavazzi visto un po’, per citare Aldo Giovanni e Giacomo, come il “Gran visir di tutti i liberisti” oppure Marco Leonardi, che non ha mai rinnegato la stagione delle riforme fatte dal Pd (come il Jobs act).

 

E’ una visione che presenta elementi di verità, ma che è anche molto distorta. Indubbiamente, Draghi rappresenta una discontinuità rispetto alla linea del governo Conte che era molto concentrato sul ruolo salvifico dello stato così com’è, solo un bel po’ più grande, ma senza profonde riforme. Il governo Draghi, invece, si è posto come obiettivo quello di ridefinire il perimetro e il funzionamento dell’apparato statale attraverso una serie di riforme strutturali: dalla pubblica amministrazione alla giustizia fino alla sburocratizzazione. Inoltre Draghi ha riproposto parole d’ordine che da anni sembravano dimenticate da tutte le forze politiche, come liberalizzazioni e concorrenza, per rilanciare il dinamismo del settore privato. A fianco a ciò, si è posto alcuni problemi concreti che necessariamente accompagnano lo scongelamento e la trasformazione dell’economia come l’uscita dal blocco dei licenziamenti, che da oltre un anno fa da tappo a un mercato del lavoro e a un tessuto produttivo che non potranno essere uguali alla situazione pre-pandemica. 


Ma da questo a descriverlo come ultraliberista, o roba del genere, ce ne passa. Anche perché molte scelte sono in continuità con il governo Conte e verrebbero contestate da chi oggi è a Palazzo Chigi se non fosse al governo: si pensi ad esempio alle nazionalizzazioni di Alitalia, di Ilva e, in una certa misura, di Autostrade (che lo stesso premier da dg del Tesoro aveva accompagnato nel processo di privatizzazione). Draghi, da pragmatico qual è, visto il mutato contesto sia politico sia economico, non sta riproponendo la ricetta degli anni Novanta e neppure quella della lettera della Bce del 2011. A distanza di dieci anni, non chiede di fare austerità e riforme bensì di fare “debito buono” e riforme strutturali. Spendere, e pure tanto, anziché tagliare. Lo ha detto ieri in visita al distretto ceramico del modenese, segnalando tutti gli aiuti del Pnrr per trasformare e modernizzare le imprese, lo aveva detto più chiaramente qualche giorno fa a proposito dell’aumento del debito: “La scommessa è sulla crescita, sulla credibilità dei nostri interventi, non sono ipotizzabili politiche restrittive”. Più keynesiano di così non si può.


Questa conflittualità latente nel governo pone però due problemi, uno alle forze di sinistra e l’altro a Draghi. Le prime, battezzando come “destrorsa” o nell’interesse degli industriali qualsiasi iniziativa che riguardi la ripartenza dell’economia (riaperture, semplificazioni, grandi opere, etc.), rischiano di regalare Draghi a quel campo. Dall’altro lato, se il governo si lasciasse condizionare da queste critiche, rallentando così il suo processo riformatore, verrebbe meno al suo ruolo storico. Draghi ha ricordato che la via d’uscita dal debito elevato è la crescita, ma questa dipende da quanto sono profonde le riforme. Nonostante l’enorme massa di debito mobilitata, secondo le previsioni l’Italia sarà l’ultimo paese dell’Ue a ritornare (solo nel 2023) al livello di pil pre-pandemia (quello del 2019), che però non aveva ancora recuperato il crollo del 2011.

 

La semplice spesa dei soldi europei avrà un impatto ridotto sulla crescita, il vero salto di qualità ci sarà solo se verranno introdotte riforme radicali all’insegna dell’efficienza (nel pubblico) e della concorrenza (nel privato). Se Draghi si farà rallentare nella sua spinta riformatrice, alla next generation non lascerà in eredità un “debito buono”, ma semplicemente più debito. E a fare quello erano capaci anche gli altri.

Di più su questi argomenti:
  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali