La sede Rai di Viale Mazzini (foto Ansa)

la proposta

La Rai non va cambiata, va rimessa in movimento. Tre idee

Stefano Menichini

Scommettere sulla Rai come palinsesto mobile di un paese che cambia. Un manifesto possibile di un candidato al cda

Fedez, “Anni Venti”, “Detto Fatto”, il pubblico a Sanremo, e poi i finti stupri e il deputato attore, l’intervista cancellata al senatore, il servizio sul raduno neofascista, gli scoop di Report… Delle polemiche recenti esplose intorno alla Rai stupisce la varietà, di solito la vacuità, spesso la strumentalità politica, sempre la dissipazione di energie. Vigilanti e vigilati, addetti ai lavori e sfaccendati social si affannano intorno a vicende più o meno importanti ma sempre volatili, varianti di serie B dello scontro politico principale. E per quanto in ogni polemica nessuno trascuri di evocare sempre i grandi temi della governance e della crisi esistenziale dell’azienda, il “grande tema” finisce sempre sullo sfondo. E così la montagna da scalare rimane lì, neanche scalfita dalle passioni che la circondano, incombente su ogni quotidiano incidente di percorso. 

Negli ultimi sette anni sono stati studiati, elaborati e archiviati tre piani per mettere la Rai al passo con la modernità: Gubitosi (2014), Dall’Orto-Verdelli (2016) e Salini (2019). Nel 2014, per avere un’idea di che cosa è successo nel frattempo, Netflix non era ancora arrivata in Italia, Amazon Tv stava appena per nascere, Dazn era in mente dèi, Instagram aveva 300 milioni di utenti. Oggi, per dire, Instagram ha oltre un miliardo di utenti mensili e della forza dei suoi video, per carità d’azienda, è meglio non parlare qui.

 

Non sarebbe giusto dire che la Rai sia immobile. Non è vero, anche se suona bene. Ed è evidente che se a ben tre piani industriali in sette anni hanno lavorato ottimi professionisti titolari (almeno in teoria) di ampie deleghe, non arriverà adesso a Viale Mazzini qualche superman o wonderwoman capace di per sé di inventare soluzioni miracolose, di farle accettare davvero da chi è tuttora l’editore (Parlamento e governo) e di farle applicare dal corpo di un’azienda che appare sfiancata e sfiduciata. C’è il problema di trarre le conclusioni da una consapevolezza che esiste, a tutti i livelli. Perché l’orgoglio Rai viene spesso rivendicato in base a tre fattori oggettivi, ma nessuno di essi riguarda una forte proiezione sul futuro.

 

Il primo: parliamo ancora comunque della prima industria culturale del paese. Che è vero, la rivoluzione dei comportamenti e dei consumi è però di una velocità e profondità tale che nulla può essere dato per scontato. Basti pensare alla sfida che solo pochi anni fa pareva insidiosa e vincente – Sky e la proliferazione dei canali tematici, terreno sul quale Rai decise di competere con dispendio di risorse – e che oggi pare già una modalità di fruizione televisiva superata dalle decine di opzioni rese possibili, fuori dal palinsesto dei canali tv, dal digitale, dai suoi devices e dalle aggressive società native.
Nei primi mesi mesi del Covid, mentre i ricavi del settore media tracollavano, chi produceva contenuti a pagamento per lo streaming faceva registrare tassi di crescita anche del 60 per cento annui. E’ uno dei cambiamenti spinti dalla pandemia destinati a farsi strutturali.

La seconda rivendicazione: nella dieta mediatica degli italiani la portata principale rimane comunque la tv. Certo, è vero, anche il flusso di notizie, opinioni e polemiche che anima e appassiona la rete origina in realtà nove volte su dieci dal vecchio schermo tv. Vi si riferisce, in qualche modo ne dipende. I dati dicono però anche altre cose. Parlando di informazione, già nel 2017 oltre il 66 per cento degli italiani componeva il proprio menu di news incrociando nel corso di una giornata tre o quattro media diversi fra tv, radio, web, social media, giornali. La tv rimarrà il primo di questi, ma nessun network può permettersi di non presidiare tutto il campo di gioco. E infatti nessuno nel mondo lo fa, come dimostrano brand storici che impongono nella giungla del web gli stessi altissimi standard di fruibilità, qualità e affidabilità che hanno nel vecchio mondo televisivo.
Proprio questo, il più importante, è il terreno sul quale la Rai arranca. Ci sono state intuizioni, a cominciare da RaiPlay, la creatura di Campo dall’Orto del 2016. Ma nelle logiche di Viale Mazzini è ancora la sorellina piccola, sotto-finanziata, sempre dipendente per le forniture di contenuti dai canali tematici nonostante sia lei, ben più di questi ultimi, a presidiare la frontiera avanzata dell’innovazione. Al polo opposto ci sono gli incredibili ritardi su altri fronti del digitale: siti di testate importanti che agonizzano in fondo alle classifiche, cimiteri di account social aziendali dormienti, sistemi editoriali che non dialogano fra loro. Gli ultimi anni ai vertici dell’azienda sono stati vissuti in una tensione permanente fra inseguimento della rivoluzione digitale, calo delle risorse pubblicitarie, invecchiamento del pubblico e la difficoltà di far cambiare rotta a un portacontainer di tredicimila dipendenti, il 54 per cento ultra cinquantenni. Ma lo sforzo che sarebbe stato terribile per qualsiasi società, la Rai deve compierlo venendo ogni giorno trafitta dal fuoco incrociato di una pubblica opinione scettica e di una politica che rivendica il diritto-dovere a vigilare ed è la prima a colpire quando qualcosa va storto.

E’ il prezzo da pagare se ti fregi del marchio di servizio pubblico. Se assorbi ogni anno quasi un miliardo e 800 milioni di canone pagato dai cittadini (oltre il 72 per cento di tutti i ricavi Rai). Se da sempre vivi in osmosi con la politica non per vezzo o per vizio, ma per statuto.

Il terzo più maestoso motivo dell’orgoglio Rai, appunto il suo essere servizio pubblico, rimane una sinecura perché col canone in bolletta garantisce entrate certe in una stagione di drammatiche perdite di fatturato, ma si trasforma facilmente nella scusa per assumere posizioni meramente difensive, conservative. E’ inevitabile che sia così? Too big (and too political) to fail, mamma Rai continuerà a declinare per sempre senza mai tramontare veramente, pezzo immutabile di un panorama in continua evoluzione? In fondo, guardando le telerivoluzioni passate, si potrebbe dire: doveva ucciderci trent’anni fa la tv commerciale, e dovevano poi ucciderci pay-per-view e satellite. Alla fine sono diventati obsoleti come e più di noi. Siamo sopravvissuti. Passerà anche Netflix. Non è vero. E se anche fosse vero, non sarebbe giusto. Ora che l’Italia dispone delle risorse per superare alcuni fra i suoi limiti storici, sarebbe intollerabile se “la più grande industria culturale del paese” incappasse in un’altra delle sue false partenze. Col Pnrr si progettano investimenti soprattutto per ampliare le connessioni, diffondere le tecnologie digitali e transitare verso un’economia sostenibile: come potrebbe restare indietro un’azienda collocata in posizione privilegiata proprio dove questi vettori di innovazione si incrociano?
Su ogni piattaforma, con ogni formato, linguaggio e tecnologia disponibile, rivolgendosi a pubblici diversi e lavorando su tutti i generi, la Rai può costituire il palinsesto mobile di un paese che si cura e si protegge mentre si trasforma. Ovunque l’Italia deve colmare un grave gap di innovazione a livello internazionale: nell’industria dell’audiovisivo è dove siamo più vicini a riuscirci, e anche più versati. Immaginario, news, distrazione, divertimento, mai il mondo ha avuto tanta fame di questi alimenti. E del resto è il contratto di servizio che impone alla Rai di essere il motore del settore. Nel 2019 l’azienda ha investito quasi il 60 per cento delle proprie risorse tra co-produzioni e acquisti sul mercato: oltre un miliardo e mezzo di euro. E’ una leva che può fare la differenza, se impiegata dove ora imperversano i colossi dello streaming.

 

La Rai è indispensabile in questo compito anche perché è l’unica che ha il dovere e la cultura aziendale per produrre contenuti per qualsiasi tipo e livello di utente, superando marginalità sociali, anagrafiche, territoriali nel nome della sua antica missione di collante culturale del paese. In questo la tv pubblica non è molto diversa dalla scuola o dalla sanità pubbliche: non può permettersi di lasciare indietro nessuno. Chi la guida non può dimenticarlo mai. Cambiare la governance dell’azienda, questo spetta al Parlamento. Provare non a “cambiare la Rai” ma a rimetterla in movimento esplorando ogni possibile novità e riprendendo le buone proposte accantonate in questi anni: questo invece è il compito che spetta al prossimo consiglio d’amministrazione – per il quale mi sono candidato. Che è, appunto, un cda e non un parlamentino, dunque chiede a chiunque di anteporre il bene dell’azienda ad altre logiche. Ma è anche il governo di un luogo assai peculiare, dov’è condannato al fallimento chiunque non voglia o non sappia fare i conti col mondo circostante, sovrastante e sottostante. Fosse pure nel nome delle migliori intenzioni e della più raffinata competenza. Proprio da questo, dalla capacità di incrociare consapevolezza sociale, accortezza politica, competenza e forte presa sulle trasformazioni digitali, dipenderà l’esito della prova per la Rai dell’èra Draghi.

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